Reti Medievali Rivista, II - 2001 / 1 - gennaio-giugno

Edoardo Demo

Mercati e manifatture nel Veneto tardomedievale

©  Edoardo Demo per "Reti Medievali"


1. Premessa

Fra XIV e XV secolo la penisola italiana va incontro a profonde modificazioni, con il più stabile assestamento o con la formazione degli stati "regionali" o "territoriali" in diverse aree dell’Italia centro-settentrionale. Le ricerche recenti su queste tematiche hanno sicuramente privilegiato una prospettiva politico-istituzionale, mentre meno vivace e più in ombra è stata la riflessione sul contenuto economico di tale processo: sul concetto di "regione economica", sul rapporto fra economie cittadine e mercato regionale, sulle scelte di politica economica dei governi. Questo intervento ha il modesto scopo di offrire qualche spunto di riflessione su questi complessi temi, a proposito delle tendenze in atto tra Quattro e Cinquecento nella Terraferma veneta: un’area e un’epoca per la quale al fitto dibattito in materia politico-istituzionale non si può contrapporre, nella prospettiva che qui interessa, che qualche spunto del Grubb, le ricerche di sintesi del Ciriacono e del Knapton e soprattutto alcuni interventi di Paola Lanaro e Gian Maria Varanini (Ciriacono, 1986, pp. 287-307; Ciriacono, 1989, pp. 43-76; Grubb, 1988, pp. 113-114; Grubb, 1996, pp. 108-113; Knapton, 1988, pp. 183-209; Lanaro 1999, passim; Varanini 1996, pp. 135-137).

Conquistate le città del retroterra fra Tre e Quattrocento, Venezia si trova ad avere a che fare con una serie di centri caratterizzati da un proprio peculiare mercato cittadino-distrettuale e spesso internazionale. Lo scontro tra gli interessi economici della capitale e delle città di Terraferma si rileva soprattutto nel campo della produzione manifatturiera, in special modo di quella tessile, e nella conseguente attività di commercializzazione. La contraddizione fra la volontà di controllo della Dominante (determinata principalmente da motivi fiscali) e gli interessi produttivi e commerciali, ad esempio di Brescia, Bergamo, Verona e Vicenza, sostenuti dalla geografia e dalla tradizione, si manifesta ripetutamente. Mercanti e imprenditori della Terraferma continuano, almeno per buona parte del ‘500, ad operare lungo le consolidate e consuete vie commerciali che permettono l’esportazione dei loro manufatti in tutta l’area padana, nell’Italia centrale e meridionale, nel Levante e nei paesi d’oltralpe nonostante le sempre più pressanti direttive veneziane volte al controllo di ogni forma di produzione e commercio.

Si tenterà di portare un contributo alla dimostrazione di questo assunto, effettuando alcune considerazioni sulle caratteristiche produttivo-commerciali del lanificio e del setificio di Verona e Vicenza tra quindicesimo e sedicesimo secolo. Quanto qui presentato, comunque, altro non è che qualche spunto di un lavoro di più ampio respiro frutto della tesi di dottorato dello scrivente, in cui facendo ricorso prevalentemente a documentazione di natura notarile e giudiziaria, integrata con fonti fiscali, normative e soprattutto libri di conto e lettere commerciali, si è cercato di gettare nuova luce su un tema non nuovo, ma sino ad oggi affrontato genericamente con un intento più istituzionale che non economico e senza identificazione dei soggetti, delle forme societarie, dei capitali investiti, dei luoghi di produzione, delle tecnologie adottate, dei sistemi di collocamento dei manufatti sulle varie piazze commerciali tanto della penisola italiana quanto d’Europa (Demo 1999, passim).

 

2. Il lanificio a Verona e Vicenza tra Quattro e Cinquecento

Per la produzione laniera veronese e vicentina il periodo compreso tra XV e XVI secolo è contraddistinto da una fase di crescita a cui segue una lenta decadenza. Tra la prima e la seconda metà del ‘500 in entrambe le città il lanificio perde la posizione di predominio economico a vantaggio di un comparto serico in continuo sviluppo.

Verona è sicuramente fin dal XIV secolo il centro produttivo laniero più importante del Veneto, e mantiene questa posizione di primo piano per tutto il secolo seguente anche quando, a partire dal 1405, la città atesina entra a far parte dello Stato veneziano (Bianchi, 1993, pp. 57-85; Collodo, 1993, pp. 42-54).

Per il periodo precedente alla metà del ‘400 non si dispone di stime produttive, per quanto nel 1417 siano ben 116 i mercanti e produttori lanieri veronesi che si riuniscono per vietare ai garzatori di vendere panni nelle loro botteghe con grave danno dei drappieri (Varanini, 1996, pp.149-150). Per la seconda metà del ‘400 ed i primi quattro decenni del secolo XVI, viceversa, si dispone di una serie pressoché continua che permette di seguire la parabola del lanificio atesino nell’arco di tempo compreso tra il 1448 e l’ottobre del 1534. Stando ai dati forniti dalla fonte sino a poco tempo fa sconosciuta (si tratta di dati estratti dai libri del Purgo della città atesina recentemente studiati dallo scrivente), il trend del lanificio veronese sembra essere contraddistinto da una fase di forte espansione nella seconda metà del Quattrocento - quando dai 3054 panni del 1458 la produzione sale agli oltre 11000 del 1493-, a cui seguono un periodo contrassegnato da un relativamente limitato ridimensionamento della capacità produttiva (primo decennio del Cinquecento, quando la capacità produttiva ridiscende sotto le 9000 pezze) e una forte crisi corrispondente ai sette anni di interregno imperiale (quando dalle 7834 pezze prodotte nel 1508 si scende alle 3000 del 1517). Dopo il ritorno di Verona sotto il dominio veneziano (1517), la manifattura laniera atesina viene attraversata da una fase di leggero recupero prima di decadere definitivamente nella seconda metà del secolo, senza che, tuttavia, la capacità produttiva si riavvicini ai livelli toccati nell’ultimo trentennio del Quattrocento (Demo 1999a, pp. 9-40; Panciera, 1996, pp. 14-16).

Fin da subito vale la pena sottolineare che la produzione laniera veronese quattrocentesca, continuando la tradizione del secolo precedente, è principalmente votata alla fabbricazione di manufatti di medio-alta qualità, i cosiddetti "panni alti alla piana o a 3 licci", destinati in gran parte all’esportazione.

Favoriti dalla vicinanza di due vie d’acqua di primaria importanza, l’Adige e il Po, i mercanti-imprenditori veronesi in questo periodo agiscono direttamente o tramite procuratori e fattori su vari mercati "esteri", italiani e non, senza dover ricorrere all’intermediazione veneziana e difendendo anzi in più occasioni nel corso del XV e del XVI secolo il privilegio concesso dalla Dominante nel quadro dei patti di dedizione del 1405 circa la libertà d’estrazione e spedizione delle merci lungo la via commerciale che più loro aggrada (usufruendo dei porti di Ravenna, Pesaro e Ancona sulla costa adriatica o di quello di Genova) contro l’obbligo di transito per la dogana lagunare dettato da un duplice obiettivo: il controllo sul pagamento dei dazi e l’utilizzo forzato del naviglio veneziano (Lanaro 1995, pp. 9-25; Lanaro, 1999, pp. 57-67).

I "mercatores" veronesi esportano per tutto il ‘400 e buona parte della prima metà del ‘500 i panni di loro produzione nell’Italia centro-meridionale (in Romagna, alle fiere marchigiane di Recanati e Senigallia e a quelle abruzzesi di Lanciano, in Puglia, in Calabria, a Napoli e Roma) ed in Germania (prevalentemente tramite la partecipazione alle fiere di Bolzano, Egna e Merano) e nella seconda metà del secolo XV sono in grado di mantenere contatti diretti con i mercati dell’Europa centro-orientale e gli empori levantini, grazie alla presenza sulla piazza atesina di operatori "forestieri" Armeni, Boemi, Greci, Tedeschi e Ungheresi. Talvolta riescono pure ad inserire lo smercio dei panni nei grandi circuiti internazionali dell’alta finanza controllati dai mercanti-banchieri toscani come dimostra la società stretta negli anni ‘50 del Quattrocento dai figli del mercante veronese Pasio Guarienti con il fiorentino Zanobi d’Agnolo Gaddi con il preciso intento di commerciare ("ex causa pannorum veronensium") a Venezia, Bologna, Roma, Ginevra e Barcellona "et in aliis partibus transalpinis" (Ashtor 1978, pp. 318-320; Demo 1996, pp. 345-365; Demo 1997, pp. 35-44; Esch, 1981, pp. 35 e 37; Grohmann, 1969, passim; Grubb, 1996, pp. 108-113; Hoshino, 1980, pp. 190-192 e 223-224; Lanaro, 1995, pp. 9-25; Lanaro, 1999, pp. 48-67; Lecce, 1955, pp. 71-73; Varanini, 1992, pp. 206-209; Varanini, 1996, pp. 159-163).

Un ultimo aspetto merita di essere sottolineato; tra coloro che per tutto il Quattrocento e buona parte del secolo successivo investono capitali nel comparto laniero non sono pochi gli appartenenti a famiglie dell’élite cittadina che continuano ad essere direttamente coinvolti nella fase produttiva e di commercializzazione dei manufatti tessili. Certo non si trovano gli appartenenti alle famiglie che per alta tradizione capitaneale o marchionale (come i Malaspina) o per cospicua affermazione signorile trecentesca (Bevilacqua, Dal Verme), sono ai vertici della società urbana. Tuttavia quello che emerge da uno spoglio delle fonti notarili è un ceto dirigente ancora profondamente impegnato nell’attività manifatturiera e conseguentemente interessato a controllare -nelle due diverse sedi istituzionali, quella del consiglio cittadino e quella, ad esso subordinata, della Domus mercatorum e delle arti- l’economia cittadina e a difendere la libertà di commercio contro le pretese veneziane. Basta un solo esempio: in un elenco di 80 mercanti-drappieri riunitisi a Verona nell’aprile del 1479 con l’intento "de novo facere regulatores dicte artis lane" compaiono esponenti di famiglie di primo piano già ben inserite nel consiglio cittadino come, tra gli altri, i Brenzoni, i da Lisca, i Maffei, i Lanfranchini, gli Allegri, i Turchi, i Miniscalchi, i Guagnini, gli Schioppi, gli Alcenago (Borelli 1998, pp. 407-424; Demo 1999c, passim; Lanaro, 1999, pp. 48-52; Varanini, 1996, pp. 148-153).

Decisamente meno studiata rispetto al lanificio veronese è l’evoluzione del comparto laniero di Vicenza. Avviatasi assai lentamente sulla strada della produzione per il mercato, Vicenza sviluppa nel corso del Trecento una vitalità del tutto nuova. Gualchiere e tiratoi fanno comparsa via via più frequente nella documentazione a partire dal secondo-terzo decennio del secolo. Nel 1330 cade il primo provvedimento noto delle autorità comunali in favore della lavorazione laniera e a soli nove anni di distanza gli addetti figurano organizzati in corporazione. Attestato allora al quindicesimo posto nella gerarchia delle varie arti cittadine, l’organismo dei lanaioli ne risale rapidamente i gradini conquistando il sesto posto nel 1389 ed il quarto nel 1425. Il rapido sviluppo della produzione laniera beneficia di un elemento di prova diretto, e soprattutto più specifico, anche se non databile con precisione. Per testimonianza di un documento quattrocentesco si sa infatti che il settore è stato potenziato con l’istituzione delle Garzerie (cioè il complesso degli edifici in cui vengono svolte le utlime fasi di rifinitura del panno) in un anno che si può solo fissare a prima del 1387, essendosi trattato di una iniziativa promossa dagli Scaligeri. Nel 1404 in seno ai patti di dedizione a Venezia il lanificio viene definito "optimum membrum civitatis Vincentie". Durante il XV secolo la manifattura laniera del centro berico fa il decisivo salto di qualità, raggiungendo una produzione di circa 3000 panni alti a metà secolo e di 4000 negli anni ‘80, a testimonianza di una fase di forte espansione produttiva (Collodo, 1993, pp. 44-45; Demo 1999a, pp. 9-40; Varaini 1988, pp. 233-235; Zanazzo, 1914, pp. 19-54).

Anche a Vicenza, come già visto in precedenza per Verona, sono numerosi gli appartenenti al ceto dirigente cittadino che investono capitali o sono direttamente coinvolti nella fase produttiva e di commercializzazione dei manufatti tessili per tutto il ‘400, come, per esempio, gli Arnaldi, i Garzadori, i Loschi, i Muzani, i da Porto, i Provinciali dalla Seta, i Trissino ed i Verlati. Ma a differenza degli operatori veronesi i mercanti-imprenditori vicentini operano prevalentemente a livello locale o tutt’al più regionale e non sembrano in grado, se non sporadicamente come si vedrà tra breve, di svolgere le funzioni di diffusione dei propri prodotti lanieri, usufruendo per questo del porto e degli intermediari veneziani come trampolino verso i mercati internazionali (Demo, 1999c, passim; Grubb, 1996, pp. 108-113; Varanini, 1996, p. 161).

E’, infatti, soprattutto grazie all’attività dei mercanti lagunari che nel corso del XV secolo i manufatti in lana della città berica vengono collocati e venduti non solo nell’area abruzzese e marchigiana, a Roma, Napoli, in Puglia ed in Calabria, ma anche a Costantinopoli, a Damasco e ad Aleppo. Nonostante ciò non mancano esempi, seppur isolati, di mercanti vicentini attivi direttamente nell’Italia centro-meridionale senza usufruire dell’intermediazione veneziana, come nel caso del nobile Icorgio di Enrico Capra che nel febbraio del 1465 invia in Puglia dei panni di sua proprietà da barattare in cambio di grano ed olio, mentre la presenza diretta di operatori berici venditori di pannilana in vari mercati della penisola (Genova, Napoli e Roma) continua anche a Cinquecento inoltrato (Ciriacono, 1989, p. 48; Demo 1999, pp. 383-406; Grubb, 1996, p. 111).

 

3. Il setificio a Verona e Vicenza tra Quattro e Cinquecento

Pur non sapendo con certezza né quando né da chi la gelsibachicoltura sia stata diffusa nel territorio di Vicenza, fin dai primi decenni del secolo XV, come dimostrato da vari atti di compravendita e locazione di appezzamenti fondiari, la coltivazione dei gelsi è diffusa soprattutto nell’area pedemontana dell’alto vicentino (Arzignano, Malo, Schio, Thiene e Valdagno) e, in misura minore, alle pendici dei colli Berici e negli immediati dintorni di Vicenza. Già nel 1418 si viene a sapere che il territorio berico produce 300 libbre di seta greggia ogni anno (oltre 100 chili), un ammontare che cresce nel corso del XV secolo, tanto che nel 1488 e nel 1495 la sericoltura viene definita come il "principalem alimentum et modus vivendi populi nostri vincetini". Anche il territorio veronese vede espandersi la sericoltura durante il XV secolo, seppur in maniera più lenta e limitata, particolarmente nella Campanea - l’alta pianura veronese in sponda destra e sinistra dell’Adige- e nella bassa Valpolicella. Fino ai primi decenni del Cinquecento, comunque lo sviluppo della produzione veronese di seta greggia è, come già detto, abbastanza lento; ancora attorno al 1530 non si ricavano più di 20.000 libbre sottili veronesi di materia prima (circa 6.600 Kg., considerato che 1 libbra sottile veronese corrisponde a poco più di 0,33 chili). A partire dal quarto decennio del secolo, tuttavia, la sericoltura conosce un incremento esplosivo, raggiungendo una produzione di circa 80.000 libbre nel 1542 (26.400 Kg.), di 90.000 libbre (29.970 Kg.) nel 1545 ed addirittura di 100.000 libbre nel 1548 (33.300 Kg.), aumentando ulteriormente nella seconda metà del secolo, tanto che nel 1575 il rettore veneziano a Verona, Alvise Contarini, parla di una produzione annua di seta grezza di 150.000 libbre per un valore di circa 300.000 ducati di conto. La seta, in questo periodo, diviene sicuramente il principale investimento della classe dirigente veronese, che introduce la coltivazione dei gelsi in maniera massiccia nei propri possedimenti terrieri. La produzione di seta nel territorio di Vicenza, viceversa, già notevolmente elevata a fine ‘400, dopo un’ulteriore fase di crescita individuabile nei primi decenni del XVI secolo, si stabilizza attorno alla metà del Cinquecento, e l’ammontare della quota di materia greggia tratta annualmente non muta fino all’inizio del Seicento. Tra il 1529 ed il 1533, infatti si produce una media di quasi 74.000 libbre di seta all’anno (più di 24.000 chili) con punte di oltre 95.000 libbre, salite a più di 100.000 nella seconda metà del secolo e stabilizzatesi su valori oscillanti tra le 100-120.000 libbre annuali nel primo Seicento (Demo, 1999b, pp. 305-333).

Di pari passo con la diffusione e lo sviluppo della gelsibachicoltura va la costruzione di impianti per la filatura-torcitura della seta greggia, tanto che tra Quattro e Cinquecento Verona e Vicenza divengono le principali produttrici di seta della Terraferma veneziana e due tra i principali centri produttori di semilavorati serici della penisola, mentre in essi la fabbricazione di drappi di seta rimane, almeno fino alla metà del ‘500, del tutto marginale (Girelli 1969, pp. 1-20; Lecce, 1955, pp. 93-142; Panciera 1985, pp. 1039-1041).

A Vicenza degli impianti per la filatura della seta sono già attivi nel 1418. Tra gli anni ‘50 e ‘60 del Quattrocento essi sono almeno otto e nel corso degli ultimi anni del XV secolo e della prima metà del Cinquecento crescono ancora in numero e l’importanza della città come sede di produzione di semilavorati va via via aumentando. Nel 1507 sono 13 le "botteghe da filatoglio" attive con un totale di 81 valichi. Nel 1543 esse sono quasi triplicate; se ne contano, infatti, almeno 33 operanti con ben 200 valichi (Demo, 1999b, passim).

Anche a Verona la presenza dell’attività di filatura serica è attestata fin dagli inizi del XV secolo. Essa è provata dall’iscrizione di 8 persone definiti "fillatorii a seta" nel Campione d’estimo cittadino del 1409, salite a 12 in quello del 1456. Tuttavia l’operazione di trasformazione della seta greggia in prodotto semilavorato sembra conoscere una battuta d’arresto nel primo-secondo decennio del ‘500. Infatti se nel 1502 sono ancora 12 i "filatorii a seta" registrati nell’estimo cittadino, in un documento del 1543 si legge che nel 1511 "comenzò a lavorar maestro Ludovico da Millan filatoglio che avanti de lui non li era alcuno altro". Ludovico da Milano, prestando fede alla fonte qui presentata, rimane l’unico gestore di una "bottega da filatoglio" veronese addirittura fino al 1524. La ripresa, che collima con i dati relativi alla crescita della sericoltura nel territorio atesino, sembra avvenire da questo momento con un crescendo sempre più vertiginoso: 6 botteghe nel 1528, 50 con 150 valichi nel 1543, 70 opifici di filatoi dotati di 250 valichi nel 1549, 80 nel 1558 e ben 88 l’anno successivo con l’apertura di 8 nuove botteghe nel giro di un solo anno. Nel frattempo nel 1555 nasce la corporazione dei filatori veronesi, i cui statuti, redatti fin dal 1556, non vengono approvati dal Senato veneziano prima del 1566, dopo innumerevoli discussioni e diatribe (Demo 1999b, passim; Lecce 1955, p. 118; Tagliaferri, 1966, p. 142).

Fin dal XV secolo è certo che le sete vicentine e veronesi, siano esse grezze o semilavorate, vengono quasi esclusivamente condotte e vendute fuori dai confini dello Stato veneziano sia a causa del limitatissimo sviluppo della tessitura nelle due città del Dominio, sia perché i mercanti veneziani dimostrano a lungo un moderato interesse per la seta "nostrana", preferendo servirsi di materia prima proveniente da altre regioni. Per la seconda metà del ‘400 sono svariati gli atti notarili che attestano l’attività di società, in prevalenza vicentine, operanti presso i centri manifatturieri dell’Italia settentrionale, specialmente a Genova e Milano; e tra coloro che investono capitali in questa attività si possono annoverare buona parte degli appartenenti al ceto dirigente cittadino contemporaneamente impegnati nella produzione laniera, come il "nobilis vir" Leonardo da Porto che nel 1461 vende a quattordici mercanti milanesi un non meglio specificato quantitativo di seta grezza e semilavorata avente un valore di ben 700 ducati d’oro (Demo 1999b, p. 305 ss.).

Nel corso della prima metà del XVI secolo di pari passo con l’ulteriore sviluppo della gelsibachicoltura e con la moltiplicazione degli impianti per la filatura-torcitura, in entrambe le città della Terraferma veneta si assiste ad un aumento del quantitativo di sete esportate. Nel 1520 il Consiglio cittadino di Vicenza afferma che la seta prodotta nel territorio circostante viene inviata "totius Italie civitatis pro conficiendis pannis et velaminibus". Tra il primo maggio del 1529 ed il 30 aprile del 1530 sono quasi 76.000 (circa 25.600 Kg.) le libbre di seta prodotte localmente tratte fuori dal distretto vicentino per mano di mercanti berici o "forestieri" ed addirittura oltre 95.000 (più di 31.000 Kg.) tra il primo maggio 1532 ed il 30 aprile 1533. A Verona, viceversa, nel 1548 si afferma che annualmente vengono estratte almeno 100.000 libbre di materia prima per metà grezza e per metà trasformata in filati negli impianti operanti in città, mentre solo un anno dopo si valuta in almeno 70-75.000 libbre (qualcosa come 23-24.000 chili) l’ammontare di semilavorati estratti dalla città (De Gregorio, 1993, p. 167; Lecce, 1955, pp. 114-115; Pasa, 1993, pp. 275-282).

Le sete di Verona e Vicenza, come già visto per il secolo precedente, continuano ad essere inviate lungo delle correnti di traffico indipendenti dal mercato di Rialto e vengono vendute soprattutto a Genova, Milano e Mantova, ma anche a Ferrara, Bologna e Firenze ed in misura minore a Lucca e Reggio Emilia, mentre incominciano le esportazioni verso Lione, le Fiandre e, tramite la partecipazione alle fiere di Bolzano, i paesi tedeschi (Cazzola, 1967, pp. 291-329; De Maddalena, 1982, pp. 53-54; Demo 1999b, passim; Gascon, 1971, pp. 115, 144, 147, 186, 270, 314 e 333; Massa, 1974, pp. 48-58; Morelli, 1976, pp. 31, 39 e 52).

L’attività di commercializzazione viene effettuata in prevalenza da mercanti-imprenditori vicentini e veronesi dotati di notevoli disponibilità finanziarie. E’ quanto si rileva, ad esempio, da un documento redatto a Vicenza nel 1535, in cui si registra che tra il 1529 ed il 1533 in media oltre l’81% delle sete estratte dal centro berico vengono condotte sui vari mercati di vendita per conto di operatori vicentini, a fronte di una percentuale media inferiore al 19% di seta esportata fuori dal territorio vicentino direttamente da mercanti "forestieri". Val la pena rilevare che nella maggioranza dei casi si tratta di imprese che operano facendo ricorso a procuratori, commissionari e "respondenti" presenti in loco. Un caso emblematico è quello del mercante-imprenditore di Verona Donato di Alvise Stoppa. Tra il 1536 ed il 1541 egli fa acquistare nel territorio veronese ed in quello vicentino quasi 7.253 libbre di seta greggia che in parte vende nella città atesina senza ulteriori operazioni di trasformazione, in parte consegna nelle mani di sette maestri filatori di fiducia perché le lavorino in trame e sete da cucire. I semilavorati così prodotti - 5322 libbre di trame e 1522 libbre di seta da cucire- vengono inviati dallo Stoppa ai suoi commissionari - pagati con una provvigione pari al 2% del ricavato dalla vendita- a Milano, Genova, Mantova, Ferrara ed in misura minore a Reggio Emilia e nelle Fiandre (Demo 1999b, passim).


Bibliografia

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