RM Materiali - De Vincentiis "Le signorie angioine a Firenze. Storiografia e prospettive"
Reti Medievali Rivista, II - 2001 / 2 - luglio-dicembre

Amedeo De Vincentiis

Le signorie angioine a Firenze. Storiografia e prospettive

©  Amedeo De Vincentiis per "Reti Medievali"


Testo

“Tutta la storia fiorentina è, del resto, un’aspirazione verso il governo armonico e volitivo di una sola personalità dominatrice, che assommi in sé la volontà dei singoli e la volga a fini di utilità collettiva”[1]. Dopo decenni in cui la storiografia sulle vicende istituzionali di Firenze nel XIV secolo, e oltre, ha insistito sull’identità repubblicana della città[2], questa valutazione sembra provocatoria. Ricollocata nel suo contesto storiografico permette di recuperare una discussione un poco dimenticata. Tra gli anni 1910-1930 alcuni studiosi italiani si interrogarono con particolare insistenza sulla natura dei regimi signorili che si diffusero nelle città centrosettentrionali della penisola soprattutto a partire dalla seconda metà del XIII secolo[3]. L’occasione venne offerta dalla pubblicazione di due sintesi, quella di E.Salzer nel 1900 e i lavori di F.Ercole, raccolti in volume nel 1929[4]. Tuttavia, se questi furono i punti di partenza dichiarati, credo che alcuni aspetti di quella discussione, per quanto sempre incardinata entro orizzonti strettamente storici, sfuggano se non si tiene conto dei mutamenti politici in atto nell’Italia di quegli anni[5]. Forse anche per questo nel ricostruire il momento signorile della storia d’Italia la politica degli angioini al di fuori del regno ricevette un interesse relativamente marginale. Nonostante gli sforzi della dinastia per rivendicare una identità locale nel corso del Trecento, per molti medievisti italiani tra le due guerre mondiali gli Angiò erano comunque rimasti degli stranieri[6]. In una prospettiva concentrata sul passaggio interno da un regime rappresentativo e assembleare a forme di governo personale e autoritario, l’azione di elementi esterni era un elemento di disturbo. Comunque superficiale rispetto a un percorso evolutivo che mirava a cogliere una linea di evoluzione storica tutta italiana.

Fu proprio tale relativa estraneità l’elemento saliente del ruolo giocato dai principi angioini rispetto alle città italiane nelle poche pagine che Francesco Ercole dedicava al tema. Il momento angioino si realizzò nella fase di svolta della politica italiana del secondo e terzo decennio del Trecento. Allora, le lotte tra papato e impero diminuirono l’autorità locale dei due poteri universali. Così svanì la loro capacità arbitrale. Non per questo i comuni cittadini rinunciarono a ricorrere a una forza superiore, esterna, per regolare i loro equilibri interni, impedire che l’alterna vittoria di partiti contrapposti facesse esplodere l’intero sistema politico locale. Ecco che in quel momento gli Angiò parvero l’unica autorità disponibile. Questa dinamica generale spiegava il rapido formarsi e dissolversi di dominazioni signorili angioine regionali, particolarmente nell’area toscana[7]. Importate dall’esterno, tali signorie cittadine esemplificavano con evidenza alcuni tratti essenziali del modello di regime che, secondo lo studioso, caratterizzò tendenzialmente tutte le signorie italiane. Un regime in cui l’autorità del signore traeva la sua legittimità dalla libera dedizione della comunità cittadina. Signorie dai poteri ben delimitati, regolati da patti scritti, che davano vita a regimi dualistici, in cui le magistrature comunali continuavano a esercitare le loro prerogative accanto al signore o al suo vicario.

Su questo punto si concentrarono presto tutte le critiche dell’interpretazione generale di Ercole[8]. Già A.Anzilotti lo contestava. Egli sottolineava invece il carattere arbitrario, partigiano dei signori. Più che di parte, anzi, proprio di classe. Contrapponendosi in linea di principio a interessi troppo concentrati sui processi istituzionali, considerati sostanzialmente astratti, lo studioso insisteva sulla necessità di comprendere le condizioni reali dell’instaurazione dei regimi signorili. In tale prospettiva, identificava una costante della politica dei nuovi signori. Erano antiborghesi. Esprimevano gli interessi della classe popolare del comune: artigiani contro mercanti[9]. Rispetto alle signorie angioine, tale paradigma rinunciava di fatto a una valutazione complessiva. Di quelle esperienze, piuttosto, veniva selezionato un singolo episodio, la signoria fiorentina del duca d’Atene. Considerato autonomamente, quel regime poteva essere comparato con altre esperienze signorili dell’Italia centrosettentrionale. Naturalmente, ne risultavano delle conferme. Le scelte di politica finanziaria del duca (rigore nella gestione delle casse comunali, promozione delle imposizioni dirette, centralizzazione degli istituti) lo ascrivevano senza dubbio alla schiera di tutti gli altri signori antiborghesi di Italia[10].

Arriviamo così alla valutazione di Gino Masi. Rispetto a Ercole e a Anzilotti egli proponeva una terza lettura delle esperienze signorili angioine. Soffermandosi proprio su Firenze, affermava l’irriducibilità delle periodiche dominazioni angioine al modello signorile più diffuso nelle altre regioni italiane, non legato alla dinastia regia. I principi della casa d’Angiò (e tanto meno il duca d’Atene) non avevano affatto condotto una politica coerente a favore di una determinata classe sociale. Inoltre, il meccanismo istituzionale sul quale si poggiava la loro autorità in città andava nettamente distinto da quello che aveva consentito altre esperienze signorili.

Contrariamente a quanto sosteneva Anzilotti, infatti, c’erano balìe e balìe. Masi operava una distinzione netta tra l’attribuzione di poteri più o meno ampi e eccezionali a una commissione o magistratura interna alla città, emanazione diretta della struttura comunale, e invece quella a un signore straniero, come erano appunto le balìe concesse dai consigli comunali di Firenze ai signori angioini[11]. L’attenzione alle procedure di conferimento di autorità avvicinava le posizioni di Masi a quelle di Ercole. Anche rispetto alle ricerche di questo studioso, tuttavia, emergevano valutazioni sostanzialmente differenti. Quando si passava dalla osservazione delle forme di regime a quella delle pratiche lo schema dualistico proposto da Ercole iniziava a scricchiolare. La concentrazione dei poteri effettivi nelle mani dei signori o dei loro vicari appariva a Masi più larga e più intensa, tanto da restringere sensibilmente lo spazio di azione delle magistrature comunali superstiti. Soprattutto, signoria dopo signoria, tale egemonia tendeva a intensificarsi. Complessivamente, disegnava un preciso progetto di radicamento stabile della dinastia nell’area toscana, mediante una signoria centrata sulla città dominante[12]. Il progetto fallì, ma la sua ricaduta locale nella prospettiva di Masi fu quello di un primo “affiatamento” di Firenze con un “regime di assolutismo”[13]. Questo si sarebbe lentamente affermato percorrendo la via istituzionale offerta dall’altro tipo di conferimento di autorità ristretta, le balìe interne[14].

Vorrei ora evidenziare un aspetto di queste discussioni, su cui tornerò in conclusione. Le differenti valutazioni delle esperienze signorili angioine nel quadro generale delle signorie italiane risultano connesse a differenti scelte dei contesti di analisi da parte degli storici. Una maggiore attenzione alle forme giuridiche e istituzionali (Ercole, Masi) ha spinto a ricollocare le singole signorie nella serie delle presenze angioine nella città. Mentre l’interesse più spiccato per le dinamiche correnti di potere e per gli interessi dei raggruppamenti cittadini (Picotti, Anzilotti) ha avvicinato a altri tentativi signorili coevi, non legati agli Angiò, singole esperienze fiorentine. Tra queste, soprattutto, è stato selezionato l’ultimo episodio, più eclatante e atipico. Le signorie di Carlo I e di Roberto non sono state oggetto di studi specifici. Quella di Carlo di Calabria sopratutto di ricognizioni documentarie[15]. Solo quella di Gualtieri di Brienne ha suscitato studi più specifici. Già ben prima del confronto storiografico che ho appena ricordato.

All’inizio degli anni 1860 la Soprintendenza generale degli Archivi toscani assegnò a un suo alunno apprendista di terzo anno come tema di tesi La signoria di Gualtieri duca d’Atene in Firenze. La occasione determinò il carattere dello studio di Cesare Paoli, teso a dimostrare capacità di “decifrazione delle carte antiche” integrata a un “uso critico dei documenti” [16]. Ne risultò un lavoro prezioso, in cui il giovane storico presentò trecentonovantasette documenti, pochi trascritti integralmente, i più sinteticamente regestati. Si tratta della prima ricerca sulla signoria del duca d’Atene che si avvalga di testimonianze non esclusivamente narrative.

Tuttavia nell’introduzione al regesto, Paoli si limitò a ricalcare proprio la narrazione dei cronisti (Giovanni Villani in testa) combinandola con dati e precisazioni fattuali ricavate dai documenti[17]. Più di sessant’anni dopo, Armando Sapori ritornò sulla signoria fiorentina del nobile francese. Ai dati messi a disposizione dallo studio di Paoli aggiunse quelli forniti dalla documentazione contabile di alcune importanti compagnie mercantili fiorentine[18]. Sono queste e le intricate vicende del loro fallimento, in effetti, a interessare l’autore. Nella sua ricostruzione la chiamata di Gualtieri di Brienne rappresentò l’ unica via di uscita escogitata dalla classe dirigente cittadina, direttamente legata agli interessi delle compagnie, per rallentare la bancarotta e una conseguente crisi di regime. Il duca, uomo forte, instaurato un regime signorile pressoché assoluto, avrebbe pagato il debito verso i suoi sostenitori interni con una serie di privilegi e moratorie che di fatto congelavano i processi di fallimento contro i grandi mercanti. In seguito, Michele Luzzati ha provveduto a ridimensionare di molto la portata dei presunti favori ducali verso le compagnie in difficoltà nonché a sfumare la testimonianza in proposito di Giovanni Villani, direttamente coinvolto nella vicenda e quindi dalla memoria assai tendenziosa[19].

La stessa linea, centrata sugli aspetti economici e finanziari, è stata seguita dalla più recente ricerca sulla signoria del duca d’Atene, inserita nella sintesi proposta da Marvin Becker nel 1967[20]. Inserendosi in una storia complessiva del comune, la vicenda fiorentina di Gualtieri di Brienne inevitabilmente richiama allo storico per lo meno la precedente signoria di Carlo di Calabria. Ma il legame tra le due esperienze pare al massimo congiunturale: crisi economica del comune, conseguente smarrimento della classe dirigente, dissolvimento del consenso alle istituzioni comunali. Un solo rimedio possibile: stravolgere il gioco politico chiamando un signore straniero. L’originalità della ricerca deriva dall’analisi, per la prima volta, di un nuovo documento prodotto durante la signoria, il voluminoso registro di entrate della camera ducale.

Benché Becker non lo sfruttò sistematicamente, ne trasse comunque l’impressione di una brusca accelerazione dello stato cittadino verso un’organizzazione moderna, in una accezione weberiana ortodossa. Il dispositivo del documento in effetti è persuasivo: a leggere le lunghe liste di multe riscosse, di irregolarità saldate si può agevolmente cedere alla tentazione di identificare l’esistenza di un gruppo compatto di nuovi funzionari ducali, maestri, ufficiali, tesorieri, notai, giudici e collaterali, efficienti, imparziali e impersonali. Si tratta però di una percezione molto parziale, deformata dalla natura stessa del documento[21]. La sua forma, la sua struttura e la sua logica interna, strettamente legate alle sue specifiche funzioni pratiche concorrono a restituire un’immagine di efficienza e impersonalità amministrativa, mentre la situazione reale nel suo complesso doveva essere molto più fluida L’adesione dello storico al punto di vista di questa fonte particolare si risolve in una inversione della gerarchia di verità dei documenti rispetto alle letture precedenti. L’impersonalità apparente della testimonianza del registro di entrate della camera ducale convince più del tono moralistico e tendenzioso dei ricordi dei cronisti: la signoria del duca d’Atene diventa così un breve parentesi di efficienza in mezzo alla crisi della tradizionale classe dirigente fiorentina.

In questo caso prevale in modo estremo il paradigma di una gerarchia di causalità dei piani del reale in cui il primo posto spetta agli interessi, intesi nel senso più restrittivo di interessi economici. Anche questa prospettiva porta a disgiungere gli episodi signorili angioini, considerandoli come sostanzialmente irrelati tra loro. Pur partendo da una impostazione che tende a subordinare la sfera del politico, dei processi istituzionali, a quella degli interessi e delle dinamiche sociali, però, si potevano percorrere altre vie di ricerca. Facendo un salto all’indietro, è ciò che suggerì la sintesi di Romolo Caggese[22]. Per quanto assai sensibile agli aspetti sociali, ai contrasti di classe, la sua particolare sensibilità storiografica, improntata alla tradizione storica positiva, lo stimolava a ricercare cause ricorrenti per fenomeni ricorrenti[23]. Lo storico identificava delle “condizioni d’ambiente” che, quando si verificavano, costituivano “una identità di precedenti” nel ricorso al governo signorile[24]. In città l’elemento scatenante era l’inasprimento dell’esclusione politica. Una parte dominante sempre più ristretta occupava il potere creando un’agitata massa di esclusi: i magnati dentro le mura e gli sbanditi, ghibellini, guelfi neri o altro, al di fuori. Ne scaturiva una tensione endemica che il sistema comunale non riusciva a controllare quando vi si sovrapponevano crisi militari particolarmente virulente.

Caggese sottolineava il legame, a suo modo di vedere costante, tra la pressione espansionistica di un potere esterno sulla città e il ricorso dei fiorentini a un signore. La spedizione italiana di Enrico VII spinse il comune a affidarsi a Roberto d’Angiò, le agguerrite scorribande di Castruccio Castracani a Carlo di Calabria, lo scontro con Pisa per la conquista di Lucca al duca d’Atene. In tali crisi ricorrenti “lo spirito pubblico si orientava spontaneamente, quasi inconsciamente, verso quella forma di governo”: i cittadini al potere, in preda a una catena di reazioni psicologiche di gruppo, non vedevano altra soluzione che affidarsi a un signore angioino.

Sebbene risolte in un determinismo semplificatore, le osservazioni di Caggese colgono un aspetto essenziale del problema. Le esperienze signorili a Firenze fino alla metà del Trecento non furono episodi isolati tra loro. Anche in reazione a impostazioni concentrate solo sulla dimensione giuridica e formale degli episodi, come abbiamo notato, la maggior parte delle ricerche hanno svalutato l’aspetto più specificamente politico del fenomeno. Sovente la scelta di un particolare assetto istituzionale è stata considerata come una manifestazione superficiale che rimanda a ragioni più profonde, necessariamente di altra natura[25]. Dall’adozione implicita di tale presupposto sono scaturite ulteriori semplificazioni storiografiche. Dal punto di vista politico, le esperienze signorili di Firenze costituirono degli episodi parentetici, estranei al sistema comunale. Dal punto di vista istituzionale, le signorie furono quasi identiche tra loro, riproponendo ogni volta analoghi assetti. Da quello degli equilibri di potere, infine, le presenze angioine risultarono sostanzialmente irrilevanti, dal momento che si trattò di espedienti nati per consentire alla consueta classe dirigente cittadina di mantenere l’egemonia, in una straordinaria staticità nella gestione del potere reale[26].

Al contrario, la ricerca che ho condotto fino a ora indica che l’opzione signorile, con adattamenti e evoluzioni, costituì un modello politico con una propria tradizione, iniziata con il primo esperimento ai tempi di Carlo I [27]. A titolo esemplificativo, mi sembra rivelatore un documento relativo proprio all’ultima sperimentazione signorile angioina di Firenze. S tratta del dossier che riunisce la serie di atti con cui vennero registrate le procedure istituzionali che conferirono la signoria al duca d’Atene sulla città tra l’8 e l’11 settembre del 1342[28]. Un insieme di quattro documenti che registrano le tappe successive di un percorso istituzionale formalizzato: il parlamento generale in cui vennero lette e approvate per acclamazione le condizioni che definivano la concessione della signoria al duca; la presentazione al signore da parte di alcuni rappresentati del comune dei patti e la loro accettazione; l’approvazione dell’accordo nel consiglio del capitano del popolo; quindi in quello del podestà; infine, ratificato dai consigli opportuni, una nuova presentazione dell’accordo al signore, a mezzo di altri rappresentanti del comune, e la sua accettazione. Tra questi documenti, che rispecchiano anche nel loro ordine la successione lineare delle procedure con cui si definì la signoria, vi si trova interposto un quinto, molto significativo

Si tratta infatti della trascrizione per esteso dell’atto di conferimento della signoria a Carlo di Calabria e della sua approvazione da parte dei consigli del comune di sedici anni prima. In questo modo il riferimento alla precedente esperienza signorile quale modello di questa nuova diventava più che un generico richiamo. Nelle intenzioni dei gruppi cittadini che favorirono la nuova signoria il rispetto dei parametri stabiliti nel 1326 doveva essere rigoroso e certificato anche nel nuovo regime. Furono certo loro a esigere la trascrizione dell’atto che ne conteneva le clausole. Il notaio dei consigli realizzò tecnicamente la richiesta, cercando il documento nei registri dell’archivio, trascrivendolo per esteso nell’insieme di atti che definivano e legittimavano la signoria del duca d’Atene. La dedizione del settembre 1342 diede dunque luogo a un documento la cui struttura e forma complessive furono certamente una novità assoluta nella tradizione documentaria del comune di Firenze. Tuttavia l’originalità del documento risiede soprattutto nell’accostamento, coerente e logico, di singoli atti che avevano dei precedenti conservati nell’archivio fiorentino. Questa caratteristica documentaria rispecchia la particolarità della pratica istituzionale a cui fa riferimento. Alcune delle clausole che maggiormente caratterizzavano il modello del nuovo regime signorile affondavano le loro radici nelle precedenti esperienze che avevano visto protagonisti Carlo di Calabria, Pietro da Eboli, Roberto d’Angiò, fino a risalire alla prima signoria angioina in città, quella del re Carlo I del 1268.

Le presenze angioine fino al 1343 indicano che il sistema politico di Firenze era ancora sufficientemente aperto da potersi adattare a periodiche sperimentazioni signorili, senza che queste venissero percepite come assolutamente estranee o radicalmente alternative al regime comunale. Il campo specifico in cui tali sperimentazioni vennero elaborate e presero forma fu proprio quello in cui maggiormente si concentravano le lotte per il potere in citt24à: le istituzioni politiche. Il regime signorile costituì un’opzione su cui, in determinati momenti, si raccordarono differenti gruppi di cittadini, a partire naturalmente da quelli legati alla monarchia angioina per consuetudini familiari e interessi economici. Inoltre, i processi decisionali con cui vennero instaurati i regimi riflessero ogni volta rapporti di forza diversi, cosicché ogni dedizione rappresentò per le parti cittadine l’occasione di rinegoziare, tramite le rispettive rappresentanze istituzionali, gli equilibri e gli assetti politici. Le nuove configurazioni istituzionali che di volta in volta ne risultarono tradussero nel quadro del regime signorile i processi di potere effettivo in atto nel comune[29]. Infine, nello svolgimento di tali esperienze si verificarono evoluzioni e mutamenti delle configurazioni di partenza che corrispondevano alla ricerca e ai tentativi di affermazione di diverse interpretazioni del modello signorile. Il sistema comunale poté, dunque, essere talvolta orientato in senso signorile; ma anche tale nuovo modello, a sua volta, fu interpretato nella pratica corrente in diverse accezioni, a seconda del mutare delle esigenze e dei rapporti di forza tra le parti. Tali dinamiche evidenziano la duttilità del sistema politico comunale, che durò ben oltre la prima fase podestarile, particolarmente significativa a Firenze poiché, viceversa, la storiografia ne ha tradizionalmente sottolineato il precoce irrigidimento degli ordinamenti e della coscienza civica comunale[30]. Più in generale, inoltre, spingono a riconsiderare l’intera vicenda delle forme di dominazione signorile promosse dalla dinastia angioina nei comuni italiani.

L’identificazione di una tradizione locale a Firenze e soprattutto della esistenza di un modello di regime signorile angioino nella cultura politica della città, per quanto dinamico e in evoluzione, suggerisce che tale riconsiderazione dovrebbe partire proprio dal reperimento della circolazione intercittadina di eventuali modelli istituzionali legati alle periodiche signorie di membri della dinastia durante la prima metà del XIV secolo[31].


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Note

[1] Masi 1936, p.153.

[2] Per echi nella riflessione politica in età moderna, tra gli altri, v. Pocock 1980. Sulla costruzione storiografica di Firenze tra medioevo e rinascimento cfr. gli interventi in Gli angloamericani 2000.

[3] Gli studi principali sono citati da Sestan 1982, note 1-3, pp.53-55.

[4] Salzer 1900; Ercole 1929, che raccoglie studi pubblicati a partire dal 1910.

[5]In questo senso sono rivelatrici le ultime pagine del saggio di G.B. Picotti in cui lo storico si preoccupa di disconnettere le signorie tardomedievali da un ipotetico movimento di protounificazione italiana (ipotesi avanzata da Colini Baldeschi 1924) e soprattutto da fome di governo moderne (a esempio lo “stato di polizia”, Picotti 1926, p.28 e ss.).

[6]Cfr. Picotti 1926, p.29, Masi 1936, p.104. Sugli sforzi di italianizzazione della dinastia angioina, soprattutto durante il regno di Roberto, v. Gilli 1998 e, più in generale, Gilli 1997. Cfr Barbero 1983.

[7]Ercole 1929, pp.271-272, che accomunava le dominazioni angioine a altre dominazioni signorili straniere, come quella di Federico d’Austria o  Giovanni di Boemia.

[8]Ancora Ventura 1982 impostava buona parte del suo studio contro tale interpretazione, riprendendo Picotti, Masi etc.

[9] Anzilotti 1914, p.79 ss.. Alla radice della ricerca di interessi concreti, identificati in particolare con quelli economici, veniva invocato lo studio di Volpe 1902.

[10] Anzilotti 1914, pp.90-91, in questo caso lo studioso basava la sua valutazione sugli studi di B. Barbadoro, allora ancora in corso e in seguito pubblicati in Barbadoro 1929.

[11] Masi 1936, pp.113-115.

[12] Masi 1936, pp.122 e ss.

[13] Masi 1936, p.108.

[14] Questa impostazione storiografica venne poi approfondita nel classico lavoro di Rubinstein 1971. Cfr. anche Molho 1968.

[15] Degli Azzi 1908, Bevere 1909-1911.

[16] Paoli 1862, p.1.

[17] Sulla qualità, oltre che la quantità, ben altrimenti sostenuta delle successive ricerche di Cesare Paoli v. Artifoni 1990, pp.36-38 e passim.

[18] Sapori 1926, pp.143-156.

[19] Luzzati 1969 e Id. 1971, pp.49-51.

[20] Becker 1967, pp.149-175.

[21] Archivio di Stato di Firenze, Camera del comune-camarlinghi, entrata 1 bis

[22] Caggese 1911, pp.73-173.

[23] In questo, e non solo in un approccio scientifico al passato, storico positivista in senso proprio, cfr. Artifoni 1995-1996, p.171. Su Caggese in particolare, v. Artifoni 1990, pp.34 ss.

[24] Caggese 1911, pp.122-125.

[25] Sul particolare radicamento di tali impostazioni nella storiografia su Firenze tardomedievale v. i bilanci di Najemy 1985; e sul conseguente disinteresse per gli aspetti più propriamente istituzionali: Najemy 1991, pp. 262-274.

[26] Sul concetto di classe dirigente comunale nella storiografia anche recente, v. Vallerani 1994.

[27] Faccio riferimento a De Vincentiis 1999-2000.

[28] Tra le varie versioni manoscritte esistenti, ora faccio riferimento a Archivio di Stato di Firenze, Capitoli-registri xiii, cc.68-73.

[29] Sulla nozione di processo di potere effettivo ricondotta ai comuni e ai loro ordinamenti istituzionali si v. Costa 1969, pp.208 ss.

[30] Sull’elasticità istituzionale del regime podestarile si v. le classiche riflessioni di N.Ottokar, e prima G.Volpe, sviluppate più recentemente da Artifoni 1986.

[31] Su un punto specifico v. Caciorgna 1995.