Reti Medievali Rivista, III - 2002 / 1 - gennaio-giugno

Andrea Tilatti

Canonica-canonici di Santa Maria di Padova:
tra aspirazione alla continuità e spinte di rinnovamento (secoli X-XIII)

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© 2002 - Andrea Tilatti per "Reti Medievali"


Testo

Premessa

Gli studi sulla canonica di Santa Maria di Padova all’apparenza non sono molto nutriti, tuttavia l’argomento non è stato ignorato, benché sia necessario uno sforzo sintetico non lieve per annodare fili a prima vista slacciati e lontani. Giovanni Brunacci (1711-1772) ne scrisse qua e là nella sua Storia ecclesiastica di Padova[1], Francesco Scipione Dondi Dall’Orologio (1756-1819) ne trattò in diversi luoghi delle Dissertazioni[2], ma soprattutto in un’opera specifica, che, per quanto lacunosa e inesatta, rimane la sola esplicitamente riservata al collegio chiericale annesso al soglio episcopale[3]. Qualche notizia sommaria si può reperire nell’introduzione al Codice diplomatico padovano di Andrea Gloria[4], ma occorre arrivare alla fine degli anni Cinquanta per incontrare una breve e frettolosa nota di Antonio Barzon, dedicata, più che ai canonici della cattedrale, alle vestigia di vita comune del clero nella diocesi di Padova[5]. Eppure, la mole di documenti serbati nell’archivio della canonica[6] costringeva e costringe gli studiosi di storia medioevale padovana a incappare tanto nell’istituzione quanto negli uomini che la impersonavano, nelle loro azioni, nei loro rapporti con la città. Così si apprendono notizie e si aprono prospettive di lavoro leggendo ricerche di storia della chiesa e religiosa, come quelle di Paolo Sambin[7] e di Antonio Rigon[8], oppure studi di storia sociale o politico-istituzionale, quali quelli di Sante Bortolami[9] o di Silvana Collodo[10], ovvero di storia della cultura come le opere di Paolo Marangon[11].

Un libro miscellaneo dedicato alla diocesi padovana è stato ordinato cronologicamente anziché tematicamente, e quindi le notizie sui canonici si trovano diluite in diverse sezioni[12]. Da parte mia, in un volume incentrato sulle istituzioni padovane fra il VI e il XII secolo, colte in parallelo alla genesi del sistema agiografico locale, mi sono interessato ai canonici in maniera un poco più insistita, senza tuttavia esaurire l’argomento[13]. Questi e altri contributi sono stati ovviamente influenzati da obiettivi, metodi e criteri storiografici, quando non – soprattutto in un passato per la verità non troppo vicino – da preoccupazioni più o meno apertamente apologetiche o polemiche. Significativo, ad esempio, il ripetersi di un Leit-motiv quale quello della vita comune (in un filo di continuità dal Brunacci al Dondi a Barzon), indicatore non soltanto di un problema storico, ma pure di un carattere che per sua natura si confrontava con una normativa ideale o con istanze di riforma, l’aderenza alle quali misurava il grado di positività dell’istituzione ecclesiastica del medioevo, sì, ma specchiata nelle esigenze di coerenza con un presente in diverso fermento. In linea generale si deve poi osservare che spesso il tema conduceva allo studio di un movimento canonico regolare, non necessariamente assimilabile alle canoniche delle cattedrali[14]. La documentazione rimasta per Padova, relativa ai secoli dal X al XIII, non permette a mio avviso di appurare senza incertezze se quello della vita comune fosse un problema avvertito dagli antichi canonici con i medesimi contenuti e intensità degli storici odierni. Ma non tutto si estingue in una simile problematica. Di sicuro le fonti offrono un ampio ventaglio di approcci, se si volessero seguire gli stimoli di una storiografia dagli interessi e dagli oggetti assai dilatati, specialmente per cronologie che abbraccino il Due e Trecento[15]. Qui tuttavia preme soprattutto sottolineare l’opportunità di registrare la flessibilità, la provvisorietà, l’adattabilità degli istituti canonicali, che per la loro stessa vitalità non si codificavano in maniera rigida e immobile, ma venivano puntualmente rinnovati dalle contingenze. Se ciò conferisce significato e valore a un taglio di indagine diacronica, per converso la rende più difficoltosa. Non ci si può ancorare dunque a definizioni chiuse, ma si deve prendere atto della vivacità di un’istituzione mai né vecchia né nuova, sempre duttile in una continuità mutevole, con i suoi uomini, i suoi uffici, i suoi compiti in ambienti progressivamente diversi.

Il presente contributo, nella consapevolezza della quasi inesauribile varietà di spunti di lavoro, non è un’opera complessiva sulla canonica, poi capitolo, della cattedrale di Padova, ma si propone più sommessamente di seguire il mutamento delle sue immagini e delle sue espressioni nelle diverse epoche e soprattutto di cogliere il senso delle identità che venivano di momento in momento riverberate nei documenti: dai primi praecepta regi e imperiali, testi in qualche modo fondanti quelle identità e consapevolezza di sé, fino all’Ordinarium del XIII secolo, testimonianza assai più complessa di un contesto – affatto semplice da identificare – in cui i canonici erano spinti a riflettere sulle proprie tradizioni, sulle proprie strutture e sulle proprie funzioni, condensandole e cristallizzandole nel concepimento e nella realizzazione di un’impresa il cui valore supera di gran lunga le specifiche finalità liturgiche[16].

 

1. Prime notizie

Apparentemente le notizie più remote circa l’esistenza di un collegio canonicale a Padova sono quelle ricavabili dalla Vita di san Prosdocimo, il presunto protovescovo della città. Infatti, dopo aver convertito e battezzato il re Vitaliano, la sua famiglia e una crescente moltitudine di Padovani, Prosdocimo si preoccupò di ordinare nella chiesa (domus), fatta costruire dal re in onore del Signore, alcuni preti e diaconi e chierici di altri ordini, che vivessero con lui giorno e notte e con lui servissero Dio[17]. Non è il caso di prendere alla lettera questo racconto, ma neppure di trascurarlo, soprattutto se confrontato con altri documenti, se è vero – come credo sostenibile – che l’agiografia prosdocimiana sia nata a cavallo dei secoli IX e X[18]. Essa perciò coinciderebbe cronologicamente, grosso modo, con la prima menzione documentaria sicura reperibile per i canonici.

Il 20 aprile 918[19], da Pavia, Berengario I, sollecitato da quattro altri vescovi suoi fedeli, accordò alcune concessioni alla “sancta Pataviensis ecclesia”. In particolare, riferendosi a una collaudata consuetudo, riconobbe ai “canonici servientes” la chiesa padovana la libertà, con il consenso del vescovo, di dividere fra loro le decime della città e dei tituli ad essa soggetti (Limena, Vigodarzere, Altichiero, Torre, Noventa, Bergani, Roncaiette, Casalserugo, Pozzoveggiani, Albignasego, Maserà “et ceteri”[20]), nonché un terzo del ripatico e del teloneo cittadino e delle pertinenze urbane. L’imperatore aggiunse un’immunità passiva sui possessi “Beate Mariae virginis et Sanctae Iustinae” (e si noti come destinataria sia l’istituzione: “Concedimus etiam eidem aecclesiae...”, e non i soli canonici, come prima), che consisteva nel divieto di procedere ad atti giurisdizionali, se non in presenza del vescovo, e nell’inibizione a ogni autorità pubblica di esigere qualsiasi prestazione sia sui mercati sia sui castelli della chiesa padovana, esistenti o futuri.

Il documento di Berengario è complesso, ma occorre almeno sottolineare che i canonici sono in esso considerati come una parte del corpo più generale della chiesa episcopale. Diverso è il tenore di un diploma di Ottone I, re, rilasciato a Pavia il 9 febbraio 952[21]. Su istanza di “alcuni sacerdoti” convenuti alla sua presenza (erano, nell’ordine, Lorenzo arciprete, Reunardo arcidiacono, Rogerio prete e Martino prete), il re conferma i beni che i loro predecessori “tenuerunt ad partem canonicae sanctae Paduanensis ecclesiae”, e cioè i castra del Duomo, Padensi e di Roncaiette[22], nonché tre mansiones in Galzignano, la terza parte del ripatico e del teloneo e le caeterae res di pertinenza legale della canonica, aggiungendo la consueta immunità passiva[23]. Ottone I rammemora la fidelitas e l’assidua oratio dei canonici, che giustificavano il suo atto di benevolenza; nessun accenno è riservato al vescovo.

Queste tre fonti sono fra le prime disponibili (esse si moltiplicarono a partire dalla metà del secolo X) e illustrano bene i termini del problema sui quali ho inteso impostare la mia analisi. All’inizio del X secolo, nella Vita di Prosdocimo, la canonica è l’unica “istituzione” accennata, sia pure solo implicitamente, accanto all’episcopio e ciò ne sottolinea la funzione religiosa nodale nell’architettura della chiesa padovana, insieme, anche se in subordine, al vescovo. La menzione è tanto più rilevante se si riflette sull’alto valore ideale e autorappresentativo della legenda agiografica, che intendeva fornire l’immagine autentica della chiesa locale, individuando nella “storia” il tramite più idoneo per dar adeguato rilievo alle aspirazioni del presente[24]. Le vicende di Prosdocimo marcavano l’impronta delle gloriose origini apostoliche, a loro volta garanzia per uno svolgimento altrettanto prestigioso.

Il praeceptum berengariano del 918, che ha finalità eterogenee, implicite nella diversa natura della fonte, ostenta ancora l’unità della chiesa padovana, della quale sono nuovamente nominate le membra eminenti: il vescovo e i canonici, ma introduce un elemento di differenziazione economica fra le due entità, un passo verso la suddivisione delle mense. Il documento è prezioso, dunque, quale prima attestazione scritta di rapporti già stabiliti e attivi forse in epoca carolingia[25], in antecedenza regolati presumibilmente viva voce[26], utili per ritagliare un territorium decimationis corrispondente allo spazio geografico entro il quale si svolgeva la cura d’anime della matrice cittadina e nel contempo per delineare un ambito e un asse patrimoniale (e in potenza signorile) sul quale si sarebbe poi meglio determinata la personalità autonoma della canonica[27].

Il diploma ottoniano del 952 prende, per dir così, atto dell’avvenuta formazione di tale personalità, secondo un fenomeno abbastanza diffuso, in Italia settentrionale e altrove, che fra il IX e il X secolo vide l’affermarsi della consistenza istituzionalmente autonoma di numerose canoniche annesse alle chiese matrici (o cattedrali) urbane, grazie al consolidamento di nuclei di proprietà e di diritti. Lo sdoppiamento avvenne nell’854 a Tournai, nel tardo IX secolo ad Angers, a Lodi nel 951, a Mantova nel 971, a Modena nel 993, a Bologna nel 903, a Ravenna alla fine del IX secolo, a Volterra al principio del X secolo[28]. Nella vicina Verona l’appellativo di “pater Veronensium clericorum”, ossia della schola sacerdotum, poi capitolo della cattedrale, fu assegnato al vescovo Notkerio (915-928), anch’egli fidelis di Berengario, che provvide a gettare le fondamenta dell’indipendenza economica del collegio chiericale[29].

Il problema è dunque di chiarire il configurarsi anche a Padova della canonica in quanto entità istituzionale capace di propria iniziativa, di isolare le radici che resero possibile tale realizzazione, le finalità ad essa connaturate e rampollate dalle circostanze o dagli uomini stessi che la componevano.

Mi pare sostenibile che nel corso dei primi decenni del secolo X la canonica, ancora priva di una denominazione specifica, se non quella di “canonica sanctae Patavensis ecclesiae”[30] o di “schola sacerdotum de hecclesie sancte Patavensis hecclesie”[31], grazie alla sanzione giuridica di alcune masse patrimoniali sviluppò la propensione a rassodare una propria identità caratterizzata, e quindi in grado di porsi efficacemente tanto su un piano di collaborazione quanto dialettico rispetto all’autorità episcopale. Le spie di tali eventualità non sono inequivocabili, ma si possono cogliere sia nel più volte nominato privilegio ottoniano del 952 – ove è interessante notare come sia lodata la fedeltà dei canonici, vicini al re, quando da poco il Sassone aveva ottenuto il regno d’Italia sconfiggendo Berengario II e Adalberto e i loro sostenitori, fra i quali molti vescovi e forse quello di Padova, Ildeberto – sia nei testi di due sinodi, del 964 e del 978[32], nelle quali i vescovi Ildeberto e Gauslino confermavano, da parte episcopale e a integrazione specifica delle concessioni regie, i possessi e i diritti decimali dei canonici[33].

Per quanto concerne gli scopi della canonica, in prima istanza si deve ovviamente pensare a quelli abituali per una tal sorta di istituzioni e connaturati soprattutto con una dimensione religioso-spirituale: garantire la recita dell’officio divino e l’amministrazione dei sacramenti nel proprio bacino territoriale, dall’estremo del battesimo a quello della sepoltura[34]. Si tratta di funzioni rispecchiate dalla gerarchia interna, quale almeno si può indurre dalle poche carte rimaste per il secolo X. La figura principale (il “custos et rector”) è quella dell’arciprete, a volte affiancato dall’arcidiacono. Nel 950, Lorenzo arciprete riceve la donazione di Pasquasia; nel 952, Lorenzo con l’arcidiacono Reunardo e altri due preti rappresenta i confratelli davanti al re Ottone; nel 985, l’arciprete Grimaldo e Arledeo arcidiacono accettano un’altra donazione[35]. Prevale dunque la figura sacerdotale e quindi, se la lettura non fosse troppo ardita, un ruolo spiccatamente religioso, ancorché vettore di un prestigio assai particolare, inseparabile dagli interrogativi sulla fede e sulla salvezza. Questioni all’apparenza legate a una sfera individuale e interiore, si direbbe ora, ma che presentavano allora una visibilità pubblica e ricadute assai concrete a diversi livelli.

La generosità dei fedeli, tangibile grazie a donazioni e lasciti pro anima (sei fra il 950 e il 985, venti fra il 1006 e il 1052), era il sintomo di un ascendente reale della canonica nella società padovana e – sebbene sia azzardato intuirvi senza altre prove la risposta a moti di riforma o di rimodellamento della disciplina spirituale dei canonici – dell’instaurarsi di un rapporto di reciprocità che poteva oltrepassare l’immediata necessità[36]. Il corrispettivo materiale era l’accrescimento non soltanto del patrimonio, ma pure di una gamma di influenze su cose e persone che, com’è noto per l’epoca, tendevano a debordare verso prerogative pubbliche e rapporti signorili[37].

La commistione di un prestigio e di un’autorità, per dir così, spirituali e di una rilevanza e di una potenza secolari, il loro ingigantirsi, inavvertito o consapevole che fosse e non percepito come contraddittorio con la propria missione religiosa, spiegano l’assunzione di un ruolo di obiettivo potere e influenza non solo nella chiesa ma pure nella città patavina, tanto che si può ragionevolmente supporre (le fonti sono tuttavia troppo limitate e incomplete per affermarlo senza esitazione) che fin dal X secolo la schola sacerdotum si ponesse come crocevia e sintesi della élite urbana nei rapporti con il centro maggiore di potere, rappresentato da un vescovo di sicura fedeltà e, verosimilmente, di nomina regia-imperiale[38].

Il divenire della compagine canonicale della Paduana ecclesia, non sempre immediatamente evidente benché riconoscibile in alcuni tratti evolutivi, è perciò indice prezioso dei mutamenti della consapevolezza con cui i canonici guardavano a se stessi e degli atteggiamenti e indirizzi tramite i quali si collocavano sulla scena cittadina.

 

2. Le strutture della canonica nei secoli XI-XIII

Fra il secondo e il terzo decennio del secolo XI sono riscontrabili nelle fonti (la cui trama, occorre ricordarlo, benché meno rada, non è tuttavia tanto fitta da eliminare incertezze interpretative) alcuni indizi che segnalano due fattori importanti per la coscienza individuativa della canonica: uno dalle stabili conseguenze, l’altro invece più mutevole e perciò, a mio avviso, da seguire quale cartina di tornasole di almeno un tratto della diuturna e mai intermessa evoluzione della compagine canonicale.

A partire dal 1021[39] e senza soluzione di continuità, infatti, quella che era stata in precedenza chiamata schola sacerdotum della chiesa padovana viene esplicitamente individuata con il titolo di canonica di Santa Maria, ossia propriamente della cattedrale. Nondimeno, a testimonianza di una fase non breve di passaggio e della viscosità di certi processi, in una donazione del 1041 rimangono appaiate le due denominazioni: “Scola sacerdotum kanonica Sancte Marie que est constructa infra urbe Padua”[40]. Questa formula resta però isolata. La nuova titolazione poteva da una parte corrispondere a un’esigenza puramente distintiva, dato che l’orizzonte delle presenze sia edilizie sia istituzionali nella chiesa locale si era complicato, soprattutto per la maggior visibilità dei monasteri quali quello di Santa Giustina[41], ma poteva nel contempo alludere a una più stretta ed esclusiva afferenza alla chiesa madre, maggiore e perciò più importante della città e della diocesi, con il conseguente prestigio e rilievo del collegio chiericale in essa incardinato. Con ciò non si faceva altro che riaffermare il solido viluppo tra il vescovo e i canonici, sempre più nettamente riconoscibili quale entità a sé e tuttavia indispensabili aiutanti o sostituti dell’ordinario[42].

L’altro elemento di rilievo è un’inversione, riscontrabile dal 1014 in poi[43], nelle responsabilità al vertice della canonica. Se nel secolo X appariva chiaro il primato degli arcipreti, nell’XI – e per circa cent’anni – la guida fu assunta dagli arcidiaconi, almeno due dei quali divennero vescovi: Bernardo (1048ca.-1060) e Milone (1080-1095). Tutto ciò si evince, tra l’altro, dall’analisi della sequenza delle sottoscrizioni nei documenti in cui figurano i nomi dei canonici: un particolare non casuale, ma che era la ricaduta di scelte precise e consapevoli, speculari al rituale liturgico e alla gerarchia dei vari uffici ecclesiastici[44].

Ma cosa significava la prevalenza degli arcidiaconi? Non era inusuale che la dignità maggiore di una canonica esibisse tale denominazione[45]; tuttavia la compresenza, nel caso padovano, di un arciprete e di un arcidiacono incoraggia a ipotizzare una separazione dei compiti, presumibilmente orientati verso una giurisdizione spirituale, nel caso del primo, e temporale, per il secondo[46]. La supremazia dell’arcidiacono si accentua in concomitanza con l’accrescersi dell’asse patrimoniale della canonica, con il precisarsi della sua identità, con il verificarsi di fenomeni di frizione con il vescovo che non si limitavano alla sfera degli spiritualia, ma si estendevano a una dimensione più ampiamente politica nel secolo, l’XI, di maggior rigoglio della potenza signorile dell’episcopato[47]. Vista in questi termini, l’affermazione degli arcidiaconi risponde a una precisa configurazione della canonica, ove l’esercizio dei doveri religiosi conviveva senza apparente contrasto con una vigorosa presenza politica, economica, sociale. Dico ciò perché proprio nel periodo in cui potrebbero apparire vincenti i motivi di secolarizzazione, si manifestano pure le avvisaglie di una genuina vita religiosa, il cui risvolto concreto si traduceva, lo si è già accennato, in supplementi di ricchezza materiale elargiti dai fedeli a ricompensa di servizi spirituali.

Infatti, il 17 settembre 1039, un certo Giovanni del fu Raginerio donò alcuni terreni situati in Pernumia alla “kanonika Sancte Marie sita anc infra anc urbem Padua ita ut kanonika ordinata est”. Nel dispositivo Giovanni precisò che i beni sarebbero stati di perpetua proprietà dei canonici “qui pro tempore ordinati sunt aut in antea ordinati fuerint in perpetuum die notumque [= noctuque] Deo servierint”[48]. L’allusione a un ordo e a un servizio divino prestato ininterrottamente notte e dì presupponeva la prassi della preghiera comune[49], ancorché non implicasse in sé la vita comunitaria. Il chiostro, indizio di strutture edilizie atte alla convivenza, è attestato non prima del 1064[50], in un’epoca lievemente anteriore di quanto accertabile, ad esempio, per Verona[51]. Tuttavia, per tutto l’XI secolo, sono frequenti i cenni all’ordo canonicale in quanto corpo distinto dal resto del clero e in qualche modo privilegiato anche nella considerazione dei fedeli. Oltre a questi spunti non si può andare, benché sia assai probabile che, se pur ci sia stata, la formula di vita comune padovana non si discostasse da quella fissata nella cosiddetta regola di Aquisgrana, dell’816, intesa anzitutto come strumento di governo e di controllo episcopale sui chierici e di garanzia per la conservazione del patrimonio ecclesiastico; una normativa ribadita e integrata pure nel corso del secolo XI[52]. È da escludere che si sia mai avviata una conversatio propriamente regolare[53], poggiante sulla norma di vita attribuita a sant’Agostino, del resto non assente nella diocesi padovana, ma intrapresa nell’inoltrato XII secolo, per citare un solo caso, a Santa Maria delle Carceri[54]. Analogamente non ci sono prove che mostrino sensibilità per le novità giunte a maturazione attorno alla metà del secolo XI e veicolate nei programmi di Pier Damiani: quali la proibizione ai singoli canonici di possedere beni privati, in ossequio a un’ispirazione pastorale che nella individuale opzione di completa povertà riconosceva il presupposto essenziale per l’efficacia della missione e dell’esempio, oltre che per la disciplina ecclesiastica[55].

L’ultimo quarto del secolo XI è contraddistinto da altri eventi importanti: l’inventio nella basilica di Santa Giustina e la translatio e depositio nel duomo di Santa Maria del corpo di san Daniele levita e martire, avvenute fra il natale del 1075 e il 3 gennaio del 1076[56]. Il culto di Daniele all’origine pare il frutto di un’operazione voluta dal vescovo Odelrico (1064-1080), ma il martire fu subito inteso come il santo dei canonici, tanto che il 31 marzo 1076, a poche settimane dalla locatio delle reliquie nell’altare di San Pietro[57], i coniugi Corrado e Beltruda elargirono un donativo alla “canonica Sancta Maria et Sancto Danielis, ubi corpus sanctus requievit, Patavensis ecclesiae”[58]. La titolazione è un unicum, ma assai eloquente: da una parte accerta la realtà della recente traslazione, dall’altra correla il nuovo santo con i canonici, a loro volta identificati con la chiesa maggiore.

L’agiografia di Daniele, databile nella recensione primitiva verso la fine del secolo XI, con la riscrittura posteriore di qualche decennio[59], fissa un ulteriore motivo ideale nell’immagine della canonica e accompagna per un tratto la storia della chiesa padovana, durante il primo XII secolo. È indubbio che i canonici furono coinvolti nelle fasi più concitate della lotta per le investiture ed è indubbio che la vittoria di un vescovo di fedeltà romana, Sinibaldo (1106-1127ca.), portò a modifiche significative nell’ossatura della canonica e dell’intera chiesa locale. Non è qui il caso di ripercorrere le tappe della contesa fra papato e impero nei suoi riverberi padovani[60], ma occorre accennare ad alcuni motivi utili per capire gli aggiustamenti e le variazioni intercorsi nel corpo canonicale e il loro impatto nella coscienza collettiva del medesimo, individuata come criterio di lettura di questa parte della vicenda storica della canonica di Santa Maria.

Ancora una volta bisogna insistere sulla mutazione della gerarchia interna del collegio. Con la figura di Bellino, l’arciprete guadagna nuovamente la preminenza a scapito dell’arcidiacono[61]. Bellino successivamente fu eletto vescovo (1127ca.-1147)[62], e ciò è stato valutato come il sintomo dell’avvenuta coincidenza del ceto dei notabili padovani con la massima carica cittadina[63], sennonché tale obiettivo era stato centrato – seppur non con la continuità che caratterizzò il secolo XII – anche in precedenza, dagli arcidiaconi Bernardo e Milone, episodi che lasciano trasparire i serrati rapporti tra i ceti dirigenti urbani, la canonica e l’episcopio[64], tutti – allora – in sintonia con l’imperatore. Eppure l’interesse del nuovo capovolgimento ai vertici della canonica non si arresta al solo dato, per dir così, politico. In anni non lontani, anche a Verona si verificò un analogo mutamento in favore dell’arciprete Tebaldo, anch’egli poi eletto vescovo (1135-1157)[65]. Ciò segna, salvo errore, un mutamento più sostanziale nel modo di intendere l’organizzazione della chiesa in quegli anni. Il primeggiare degli arcipreti di fatto rispondeva alla preminenza del sacerdozio all’interno del clero[66].

I vescovi padovani del XII secolo si mostrarono impegnati nella razionalizzazione della diocesi. Non era una novità assoluta, ma diversa fu l’organicità e la consapevolezza dell’impresa, condotta in collaborazione con le forze locali, ma soprattutto con l’ausilio dei papi, di cui sono conservate, a partire da Callisto II (1119-1124), numerose lettere e privilegi indirizzati all’episcopio e ad altri enti ecclesiastici[67]. Gli ordinari si sforzarono – con alterni risultati – di disciplinare gli istituti monastici urbani e del territorio, assoggettandoli alla propria autorità; di regolare i rapporti con i vescovi contermini, chiarendo i confini della propria circoscrizione diocesana; di prendere atto delle mutazioni maturate nella rete di cura d’anime, riconoscendo ad esempio lo sbriciolarsi del plebato cittadino in un sistema articolato di chiese minori e dialogando con l’associazione dei cappellani; di promuovere forme di vita canonicale tanto nel perimetro urbano (Santa Sofia), quanto nel territorio (Santa Maria delle Carceri, Santa Croce di Cervarese)[68].

I canonici di Santa Maria giocarono un ruolo importante accanto al vescovo, quali suoi primi e maggiori collaboratori, benché non più esclusivi. Sinibaldo e Bellino manifestarono ripetutamente la propria gratitudine nei confronti dei loro confratres, confermando o ampliando la disponibilità patrimoniale della canonica[69]. In cambio si attendevano una fervida e ordinata vita di preghiera e ottennero la partecipazione alla revisione strutturale e disciplinare della diocesi. In tal senso può essere intesa la creazione, poco prima della metà del XII secolo, degli arcidiaconati territoriali di Padova o della zona di diretta pertinenza cittadina, in Montanis, della Saccisica; ben più tardi, allo scadere del Duecento è attestato l’arcidiaconato de Pedevenda[70]. Il frazionamento dell’arcidiaconato sopprimeva la dignità interna alla canonica e diveniva uno strumento di inquadramento del territorio che trova pochi confronti in Italia, se non nel patriarcato d’Aquileia e in alcune diocesi suffraganee[71]: un ufficio che si poneva quale vicario e ausiliario del vescovo nell’amministrazione della diocesi. Gli arcidiaconi (non sempre canonici), allo spirare del XII secolo, potevano controllare il clero e i laici, sentenziavano nelle cause matrimoniali, visitavano le chiese soggette, soprattutto coprivano con la propria competenza territoriale e integravano quel sistema di pievi che aveva cominciato qui come altrove a mostrare segni d’affaticamento[72]. Un documento vescovile del 1201 rivela che gli arcidiaconi del plebato cittadino detenevano la representatio, examinatio e correctio dei chierici, nonché la cognitio e la definitio delle cause matrimoniali e di ogni altra causa ricadente sotto il foro ecclesiastico[73]. È verosimile che pure gli altri arcidiaconi diocesani esplicassero simili funzioni.

Rivestendo l’ufficio arcidiaconale o assumendo e cumulando benefici con cura d’anime, come spesso accadeva per la ricca pieve di Monselice, ma non solo[74], il raggio d’azione dei canonici si estese stabilmente all’intera diocesi, valicando l’ambito battesimale della chiesa maggiore. Ciò si giustificava anche grazie allo spessore culturale di almeno alcuni tra i canonici, che nel secolo XII rappresentavano verosimilmente il personale ecclesiastico più preparato della chiesa locale, e di cui si conoscono precocemente studi superiori, svolti in genere a Bologna. Nella seconda metà del secolo compaiono i primi magistri: Bonifacio (1156)[75], Paganino (1164), Ugo (1172), Viviano (1189)[76], e presso le scuole della cattedrale si formava parte del clero diocesano, come del resto prescrivevano i canoni del III e IV concilio lateranense[77]. Il lievitare delle responsabilità nella sfera religiosa faceva da riscontro a una diversa qualità dell’incidenza politico-sociale della canonica nella società padovana. Il comune ormai consolidato arginò le attribuzioni signorili dei canonici, da un lato, ma era d’altro canto pronto a valorizzarle, per sfruttarne all’occorrenza il peso, soprattutto nelle strategie di affermazione nel territorio[78] e per dar vigore e compattezza alle reti di relazione sociale che costituivano la tessitura su cui si reggeva l’autonoma consistenza della città. Con l’andare del tempo, nelle liste di canonici si rende sempre più leggibile l’appartenenza dei singoli personaggi alle famiglie più ragguardevoli del panorama locale, quelle poi definibili come magnatizie[79]. Il potere si manifestava tramite il possesso di risorse economiche, di stabili raccordi con famiglie potenti, ma anche nell’esercizio di prerogative religiose. La difesa delle une e delle altre galvanizzò la sensibilità di sé della canonica nel XII secolo, distinguendola rispetto a un insieme di istituzioni ecclesiastiche sempre più fitto di presenze. Ciò non toglie che le difficoltà e la concorrenza aumentassero.

Ne è prova, fra le altre, la procedura per l’elezione episcopale, che era una delle funzioni normalmente detenute dai collegi di chierici aggregati alle cattedrali[80]. La prima conosciuta nei dettagli è quella relativa al vescovo Gerardo Offreducci da Marostica (1165-1213)[81], quando i canonici dovettero condividere il diritto elettorale con l’abate di Santa Giustina. Il problema si ripresentò nel 1213, allorché ci fu il tentativo di restringere l’assemblea ai soli canonici, e nel 1229[82], ma, anziché scemare, i pretendenti a partecipare alla scelta del pastore aumentarono: si aggiunsero – senza acquisire stabili diritti – il primicerio dei cappellani e il priore di San Benedetto; il risultato ultimo dei contrasti fu però l’intromissione della sede apostolica, già nella prima metà del Duecento e con continuità dalla fine del secolo, nella designazione dell’ordinario. C’è da dire che non sempre i canonici si presentavano unanimi all’appuntamento elettorale, tuttavia lo avvertivano come una propria qualifica essenziale, riluttavano a spartirla con altri, e quasi sempre, fino allo scadere del Duecento, il vescovo fu scelto fra loro.

Altro campo in cui le interferenze nei diritti dei canonici, fin dal XII secolo, si fecero sentire e provocarono vertenze di diverso rilievo è quello della cura d’anime nell’ambito battesimale della città. L’argomento è stato studiato, con largo anticipo rispetto alla sensibilità storiografica più recente, da Paolo Sambin[83]; qui occorre rimarcare la costanza con cui i canonici vollero salvaguardare il riconoscimento della loro superiorità, in tutto quel processo che, molto lentamente, doveva portare di fatto, all’alba del XIV secolo, alla riduzione della cattedrale a parrocchia fra le parrocchie di Padova. Agli albori del Duecento era ben vivo il senso del primato e della preminenza sulle altre chiese cittadine, indice di un prestigio non solo formale, ma che si ammantava di risvolti concreti, quali la riscossione di decime, di quartesi, di oblazioni di svariata natura, nonché dell’esercizio di una reale influenza su uomini e cose.

Un fattore di coagulo, che mantenne un peso determinante per l’autonomia della canonica e le cui fluttuazioni ne modificarono la struttura, era rappresentato dal patrimonio. L’attenzione con cui ad esso si guardava si palesava attraverso tre ordini d’intervento: di ampliamento, di tutela, di conduzione economica. Come accade normalmente per gli archivi di un ente ecclesiastico, gran parte dei documenti rimasti riguarda tali operazioni[84]. L’incremento dei beni avveniva tramite concessioni, permute o acquisti[85], ma pure grazie a donazioni, legati pii, o ad altri negozi che alla veste di natura giuridica aggiungevano un contenuto religioso. Il 31 ottobre 1173, ad esempio, davanti all’altare di Santa Maria, un certo Baldovino offrì sé e le sue proprietà alla canonica, promettendo “stabilitatem loci et obedientiam” ai rettori della cattedrale[86]. Era l’anticipazione di un fenomeno, quello dell’oblazione, assai ricco e articolato nella chiesa padovana del Duecento[87].

La salvaguardia dei beni imponeva sorveglianza su diversi fronti, anche interni. Nel 1177 Alessandro III ammoniva i canonici a non impossessarsi dei beni della chiesa[88], e pochi anni prima i parenti di un canonico avevano restituito all’arciprete immobili detenuti illegittimamente[89], a testimonianza di una prassi non infrequente e intesa alla privatizzazione delle risorse. Numerose liti giudiziarie, sorgenti molto spesso dalle conseguenze dello sviluppo urbano o di altre neonate comunità rurali che modificavano gli assetti demici e produttivi delle campagne, insieme con tutti gli aspetti relazionati alla decima e alla cura d’anime[90], contrapposero i canonici al vescovo, al monastero di Santa Giustina, ad altri enti monastici padovani o extradiocesani, alle chiese della città, a laici di diverso ceto sociale, per questioni di proprietà, di diritti, di decime, di quartesi. Gli episodi sono innumerevoli e non è qui possibile darne conto, ma occorre almeno ricordare come, dopo la stagione dei diplomi imperiali che si sono susseguiti dal principio del secolo X fino alla conclusione dell’XI, i referenti dei canonici per una superiore tutela delle proprie spettanze siano diventati i vescovi[91] e soprattutto la sede apostolica[92].

La difesa del patrimonio poteva dunque assorbire a fondo i canonici, in cause che talora si protraevano per anni o decenni[93]. Ma un impegno continuo richiedeva lo sfruttamento adeguato delle numerose fonti di reddito, che si differenziavano negli introiti derivati dalle proprietà immobiliari, quali case, mansi o frazioni di essi, ovvero in quelli provenienti dalla riscossione delle decime, che spesso avevano pure un risvolto giurisdizionale[94]. Nei luoghi in cui possedevano beni e diritti i canonici si avvalevano di uno stuolo di gastaldi, fattori e collettori, i quali talvolta pativano conseguenze gravi per i rischi cui erano esposti nell’esercizio dei loro delicati incarichi[95]. I problemi di natura patrimoniale caratterizzarono numerose funzioni all’interno della canonica e consentirono una più chiara visione delle proprie spettanze e individualità rispetto alle altre istituzioni padovane. Se alla dignità arcipretale era addossata la responsabilità di sovrintendere all’organizzazione e alla disciplina del collegio e alla cura d’anime a esso affidata, se gli arcidiaconi – che non necessariamente, si badi, erano canonici – dovevano aiutare il vescovo nella cura della diocesi, attribuzioni certamente amministrative ebbero figure come il preposito, che compare in un’unica occasione, nel 1135[96], e i massari, che a partire dal 1150[97] e con mandati di varia durata, ma comunque non vitalizia, figurano impegnati in mansioni particolari o correnti di gestione economica e agivano quali vice degli arcipreti, benché la loro autonomia fosse limitata dalla sovranità del capitolo su tutte le questioni più importanti, come l’investitura di feudi o i concordati giudiziari[98].

Al 1185 risale il primo documento in cui è menzionato il sacrista[99], che si interessava specificamente alla manutenzione degli edifici di culto e alle esigenze delle celebrazioni liturgiche e usufruiva di una camera a ciò appositamente deputata. Si assolveva in tal modo alla responsabilità per la decorosa tenuta della chiesa madre-cattedrale e si poneva nel contempo una distinzione rispetto alla restante mensa canonicale affidata a un massaro-canipario. Ne è chiara evidenza un documento del giugno 1224, con il quale veniva conferito un doppio incarico di collettore delle decime di Scandalò da parte del canonico Bartolomeo “et eiusdem canonice tunc massarius pro canonica pro medietate” e dal canonico Egidio “et eiusdem canonice thesaurarius pro sacristia Paduane canonice pro alia medietate”[100].

Sul finire del secolo XII, la necessità di commisurare il loro numero alle esigenze di un’esistenza economicamente agiata in proporzione alle disponibilità spinse il vescovo Gerardo, di concerto con i canonici, a fissarne a ventiquattro il numero massimo, e si trattava di un limite già tacitamente attivo e non necessariamente raggiunto[101]. La decisione di istituire il numero chiuso fu confermata da Celestino III, nel 1196[102]. Era un passo formale risolutivo verso la stabile suddivisione delle prebende individuali, ormai non più definibili come le originarie distribuzioni di vitto e vestito, né forse come la corresponsione dei soli frutti del patrimonio[103]. Le intenzioni episcopali non vanno giudicate con occhio sfavorevole. Svariati decenni prima, nel 1130 Bellino e Gerardo nel 1171, con formule identiche, avevano confermato e incrementato i beni dei canonici affinché, nella tranquillità di una vita senza ansie per il sostentamento, “divino cultui sine strepitu vacent”[104]. Presumibilmente pure le determinazioni del 1196 erano motivate da un desiderio d’ordine, di razionale amministrazione, con l’aspirazione ultima di una positiva ricaduta religiosa. Nei fatti però si ponevano le premesse per lo sfaldamento della vita comunitaria, la chiusura corporativa di un gruppo privilegiato, l’atomizzazione individualizzante delle risorse. Erano fenomeni ancora allo stato incoativo, naturalmente, ma che sarebbero stati largamente condivisi in altre città, non solo italiane, pur con tempi variabili[105]. A distanza di qualche decennio l’interesse generalizzato per lo sfruttamento dei benefici ecclesiastici avrebbe individuato nel canonicato uno status privilegiato, reso perciò oggetto di mire ancor più consapevolmente indirizzate all’acquisizione – o al mantenimento – di un’onorevole stabilità sociale ed economica[106].

La fenomenologia di un tale processo – riconosciuto correntemente come lo sbocco di crisi dell’ideale canonicale[107], ma che forse va inteso piuttosto come l’assestamento di un’istituzione in nuove circostanze storiche e quindi, in un certo senso, come la manifestazione di una certa vitalità – a Padova non diede luogo a mutamenti repentini, ma a varie sperimentazioni, che ribadiscono il peso della questione patrimoniale e meriterebbero altro spazio di approfondimento. Il desiderio di efficienza nella riscossione delle decime (non direttamente delle prebende) pare all’origine di un tentativo di organizzazione varato il 6 aprile 1202 dall’arciprete Zambono, “de consilio et parabola” del vescovo Gerardo e con l’approvazione dei fratres (alla delibera capitolare erano presenti venti canonici), benché il progetto fosse forse vecchio di un decennio. Le decime della città e delle altre ville furono divise secondo i quattro quartieri in cui si articolava l’organizzazione urbana: Arena, Torricelle, Duomo, Pontemolino, di cui si tracciarono le pertinenze e furono quindi affidate, estratte a sorte, allo sfruttamento di quattro gruppi di canonici e chierici della cattedrale, rappresentati rispettivamente dall’arciprete, da prete Floriano, da Bianco e da maestro Cerruto. Tutti promisero di rispettare tale concordio per tre anni, eccetto Agostino, “qui dixit nicilminus se velle habere beneficium”[108]. L’esperimento durò più a lungo del termine fissato: nel 1215 sono documentati gli atti di nomina dei collettori delle decime per il triennio successivo da parte dei massari dei singoli quartieri[109].

Difficile valutare lo scopo di tale innovazione: era un modo per mantenere una certa unità patrimoniale? un passo intermedio verso la frantumazione? un espediente per rendere più efficace l’amministrazione e più attento il controllo, in un momento in cui sovente i diritti decimali della canonica – come di altri enti ecclesiastici – erano contestati ed erosi? Forse è più plausibile quest’ultima interpretazione, giacché l’eccezione del canonico Agostino, nel 1202, sembra dare per scontato che fosse già operativa una qualche distinzione in “prebende” (non si sa se assise su beni e diritti definiti – e perciò assimilabili a un beneficio – o se ricavate per partizione di un monte comune; reputo comunque lecito tradurre così la parola beneficium[110]); ma soprattutto perché l’intento di conseguire una miglior efficienza è esplicitamente dichiarato da un canonico nel corso di un interrogatorio del gennaio 1205: Danio infatti disse: “Ad hoc facta est divisio illa ut quilibet quarterius melioretur per eos qui habent”[111]. Tuttavia un ulteriore passo fu compiuto il 20 maggio 1226, quando i canonici, con il consenso del vescovo Giordano, redigendo ventitré libelli selezionarono gli immobili e i redditi destinati stabilmente a ciascuna prebenda, due delle quali furono riservate ai quattro mansionari e ai quattro custodi[112]. Contemporaneamente furono emanati statuti per regolare i rapporti tra i confratres in tema di benefici, prevedendo possibilità di permuta, meccanismi di compensazione a carico della mensa collettiva nell’eventualità di perdita di introiti per alluvioni o di spese eccedenti i cento soldi per tutelare i propri diritti, opportunità di subentro nel caso di morte o di rinuncia a una prebenda[113]. Pochi mesi dopo Onorio III ratificò le decisioni assunte, approvando contestualmente uno statuto che regolava la residenza[114] e confermando il numerus clausus fissato da Celestino III e tutti i privilegi già accordati dai pontefici[115]. Il criterio di frazionamento rimase un modello: nell’aprile del 1263 le decime di Polverara furono a loro volta smembrate in ventitré porzioni e furono compilati altrettanti libelli, che descrivevano le parcelle di ciascun canonico[116]. Si nota una discrepanza fra il numero massimo delle prebende previste e quelle effettivamente esistenti, che si giustifica forse con la consuetudine di non superare mai il numero di ventitré, raggiunto nel 1192[117], nonostante la teorica facoltà di disporre di una unità in più. I mutamenti avvenuti in materia beneficiale a partire dallo scorcio del secolo XII e poi nei primi due-tre decenni del Duecento sembrano imprimere un’accelerazione e una svolta ulteriore nella struttura della canonica e nello status dei canonici, assecondando comunque una tendenza diffusa[118]. La scissione delle mense episcopale e canonicale, avviata fin dal X secolo, e complicata dalla frammentazione di quest’ultima fra parti comuni (canipa dei canonici, sacristia) e prebende individuali, sembra intrecciarsi, soprattutto dopo la rinuncia all’episcopato dell’Offreducci, nel 1213, e con le turbolenze per l’elezione di Giordano[119], con l’allentamento dei legami di subordinazione al vescovo. Se Gerardo faceva regolarmente prevalere la propria autorità sul capitolo[120], con il successore i canonici mostrano un crescente margine di manovra rispetto alla propria disciplina interna, ai criteri di selezione e di reclutamento, alla distribuzione delle risorse[121].

L’ampiezza delle autonomie acquisite, il loro fissarsi in norme scritte rendevano visibile lo snaturarsi della primitiva identità dei canonici e del loro vincolo con il vescovo e davano respiro alle ambizioni dell’istituzione e dei singoli, protesi al miglioramento della propria personale condizione e poco rispettosi di una disciplina comune. Il risvolto della medaglia era il rischio di uno scollamento dalle proprie funzioni tradizionali nel servizio presso la cattedrale, ossia di quelle più specificamente religiose. Lo sapevano anche i canonici. Uno di essi, Almerico, nel testamento rogato il 4 aprile 1197, lasciò ottanta lire venete, fra le altre cose, quale risarcimento “pro negligencia officii seu ministerii et sui”[122]. Le carenze nell’officiatura (assenze per studio, per affari, per cumulo di dignità benefici interessi…) resero indispensabile la creazione di ruoli supplenti: i custodi e i mansionari, con i quali si perfezionava l’organico così come appare enucleato nelle pagine dell’Ordinarium duecentesco. Proprio in quel libro è dichiarata la consapevolezza che gli ultimi nati fossero stati generati da una “costola” degli antichi progenitori:

Sciendum est quod de omnibus que deputata sunt et deferuntur et collocantur in comuni canipa canonicorum, debent habere beneficia mansionariorum et custodum equaliter cum canonicis partes suas que duo beneficia duorum canonicorum fuerant de quibus facti fuerunt mansionarii et custodes[123].

La filiazione da un beneficio canonicale, dunque, era una giustificazione sufficiente per far partecipare anche mansionari e custodi all’onere, ma pure all’onore, di accudire la matrice urbana, macchina complessa di preghiera, liturgia, cura d’anime, con le sue gerarchie, i suoi obblighi. L’intento era, come avveniva altrove[124], di soddisfare tutti gli impegni liturgici, per assolvere a una quotidiana attività teoricamente ritmata dall’orazione e dalla cura pastorale. La preoccupazione per il culto era effettiva e non nuova. Nelle carte rimane traccia di una serie di figure di contorno, fin dalla seconda metà del secolo XII, quali scolares[125], preti o chierici[126], il cui compito era, verosimilmente, di coadiuvare i canonici nelle funzioni liturgiche e pastorali. Con il passare del tempo si manifestò però la volontà di disciplinare simili mansioni. Solo dal principio del Duecento vengono nominati esplicitamente i quattro custodi[127], che appartenevano a tutti gli effetti al clero della cattedrale ma non sedevano con voce in capitolo. Nell’ottobre del 1218 furono istituite quattro mansionarie, sfruttando una prebenda rimasta libera[128] e riducendo di conseguenza il numero massimo dei canonici. I mansionari dovevano risiedere stabilmente presso la cattedrale, partecipare all’ufficio diurno e notturno, non potevano assentarsi senza consenso dell’arciprete, non potevano cumulare altri benefici curati, dovevano celebrare, insieme con i custodi, la messa per il popolo, benedire l’acqua, battezzare i bambini, imporre la penitenza al popolo e agli infermi, celebrare le messe per i defunti (come potevano fare pure i custodi). Non erano però ammessi con pari dignità al capitolo, al quale invece spettava la loro elezione, mentre l’institutio e la confirmatio erano di competenza del vescovo. Il provvedimento del capitolo fu, nel marzo 1219, contrastato dal legato papale, Ugolino da Ostia, che riservò a sé la collazione del beneficio vacante, salvo poi delegare la scelta al vescovo Giordano, il quale invece iterò la delibera istitutiva delle quattro mansionarie, a loro volta poi confermate da Onorio III, nel 1221[129]. Presumibilmente Giordano si riferiva ad altra vicenda, nel settembre 1221, quando si scusava con il medesimo legato “si canonici Paduani nondum vacans beneficium in eadem ecclesia contulerunt alicui. Ipsi enim, tum propter absentiam et tum propter infirmitates quorumdam, nondum convenire ad faciendam electionem potuerunt: sed, dante Domino, cito convenient ad canonicam electionem faciendam, et ipsam ad honorem Dei et ecclesie facere procurabunt”[130]. Difficile capire se questa trafila celasse qualche screzio tra il capitolo e il vescovo; ammesso che vi sia stato, alla fine aveva trovato comunque una soluzione in linea con le intenzioni dei canonici. Di sicuro si tratta di avvisaglie di crescenti interferenze nelle procedure della loro selezione e nomina.

Con i mansionari, dicevo, è completo il quadro illustrato nell’Ordinarium, nella cui parte iniziale si distinguono i compiti che ciascun membro del clero addensato attorno alla cattedrale doveva svolgere. Il vescovo ovviamente occupava il primo e più onorevole spazio, con i suoi doveri nelle solennità, nell’amministrazione del battesimo nel sabato santo, con la convocazione della sinodo diocesana per la correzione e istruzione del clero, con la promozione agli ordini sacri dei chierici, con la partecipazione alla processione per la festività di sant’Antonio[131]. Egli è del resto rappresentato come una figura anfibia, titolare della cattedrale, ma pure dotato di un clero particolare[132], di una cappella[133], di un autonomo e più dilatato raggio d’azione, comprensivo dell’intera diocesi. Nonostante fosse partecipe e necessario protagonista dell’officiatura nella cattedrale, era nel contempo separato dal collegio canonicale. L’arciprete, principale responsabile della cura pastorale della “parrocchia” della cattedrale, era chiamato ad assistere in tutto il vescovo e a supplirlo, ma anche a ricevere la fidelitas dei vassalli della canonica e a investirli dei loro feudi. Tutti i chierici, ciascuno secondo il proprio grado, dovevano essere presenti e partecipare alla recita quotidiana dell’officio divino. Rubriche particolari riguardano gli uffici del magister scholarum e del cantor, con qualche aggravio per mansionari e custodi. I primi erano tenuti soprattutto all’assiduitas nell’officiatura, mentre i secondi oltre a intervenire alle cerimonie dovevano far squillare le campane, aprire e chiudere le porte della chiesa, accendere e spegnere le luminarie, preparare e collocare i libri, gli arredi e i ceri per l’officio e ogni altra cosa necessaria per il culto divino sia all’interno sia fuori la chiesa. Parenti lontani e minori erano i sacerdoti delle capelle della città[134] e delle ville, anch’essi chiamati a intervenire ad alcune cerimonie, come quelle del battesimo nella settimana santa o alla predicazione del vescovo[135], ma solo perché recanti memoria del rispetto e della reverenza dovuti verso gli ancora robusti privilegi della chiesa madre. Pure gli scolari erano in una posizione ambigua, sia perché non tutti erano chierici[136], sia per la loro giovane età, e tuttavia partecipavano alle funzioni religiose: dovevano portare le croci e i ceri, esercitare gli officia minora e leggere e cantare secondo le proprie capacità[137]. Da un simile complesso di riti e cerimonie, non occorrerebbe quasi dirlo, erano assenti ed esclusi i laici, relegati a un ruolo di spettatori passivi, secondo i princìpi della rigida separazione generatasi nei secoli dell’alto medioevo, maturata fra XI e XII secolo e sanzionata nel diritto canonico da Graziano[138].

I veri titolari del duomo, dunque, al di là della gerarchia che poneva in posizione eminente l’arciprete e, nell’ambito liturgico e cerimoniale, il magister scolarum, il cantor e il sacrista, erano collegialmente i canonici i mansionari i custodi, appartenessero indifferentemente all’ordine dei sacerdoti, dei diaconi, dei suddiaconi o degli accoliti. Essi erano inclusi in un particolare corpo del clero padovano, che si identificava a sé, separato e privilegiato, e che attivava una serie di “riti” e ricorrenze di riconoscimento reciproco o di relazione con terzi, in particolare con il vescovo. Tali erano, ad esempio, i regali scambiati fra il clero della cattedrale in occasione del Natale, festa del vescovo, a Santo Stefano, festa dei diaconi, a San Giovanni Evangelista, festa dei sacerdoti, nel giorno degli Innocenti, festa degli accoliti, o nell’Epifania, festa dei suddiaconi[139]. Tale il sistema di compensi o di pranzi, puntualmente menzionati, che tramava tessuti e reti di solidarietà volti ad agglutinare soprattutto gli scolari, futuri sacerdoti e possibili canonici[140]; e tale soprattutto quel noto ribaltamento della gerarchia, rappresentato dall’elezione dell’episcopello da parte di accoliti e scolari, capace di sovvertire la normalità, per recuperare infine un ordine ristorato e rinfrancato[141].

In questo novero, così ben orchestrato nel Liber ordinarius, mancano i cappellani della cattedrale, credo perché la loro apparizione sia più tarda rispetto alla sua compilazione e conseguente alla “privatizzazione” degli spazi interni della chiesa maggiore, processo costellato dall’erezione di altari e di cappelle con annessi benefici presbiterali, spesso riservati a un giuspatronato famigliare[142]. Un’anticipazione del fenomeno è forse intuibile nei legati testamentari di un custode, che nel 1265 designava un prete suo nipote a officiarne il suffragio[143]. Le prime tracce concrete di una loro istituzione a Padova vanno però cercate, salvo errore, nel testamento del vescovo Giovanni Forzatè, dettato nel marzo del 1280, con il quale il presule disponeva di essere sepolto nella cattedrale, presso l’altare di San Nicolò, e di alienare tutti i suoi beni mobili in modo da ottenere, “in ecclesia Paduana”, un beneficio per un prete e per un chierico, “qui faciant continuam residenciam et celebrent misam et alia divina officia pro anima ipsius domini episcopi Paduani consuetis temporibus et oris statutis. Ita quod presbiter habeat duas partes de ipso beneficio, clericus terciam partem, et ex nunc instituit dominum presbiterum Petrum capelanum suum in presbiterum et Tanselgardinum filium Bastardi in clericum ad illud beneficium, dum vixerint, post mortem vero ipsorum episcopus qui pro tempore fuerit instituat presbiterum et clericum in beneficio memorato, prout ei melius videbitur pro anima ipsius domini episcopi”[144]. Un quarto di secolo dopo, precisamente del 1306, maestro Giunta tramite una donazione volle creare un beneficio per un sacerdote nella cattedrale, perché perpetuasse la propria memoria e il suffragio, ponendo la condizione che “subsit et subesse debeat idem presbyter archypresbytero et capitulo Paduano in omnibus et per omnia sicut alii custodes et mansionarii ecclesie Paduane”[145]. Sembra evidente la parificazione degli obblighi rispetto ai rimanenti chierici non canonici, tanto che mi pare corretto pensare che, se fossero esistiti, l’Ordinarium avrebbe tenuto conto pure dei cappellani.

Esso è dunque leggibile come il punto d’arrivo e più alto di una delle identità canonicali, ne sottolinea la funzione più specifica e propria, ne delimita i confini di gruppo, ove con Paduana ecclesia non s’intende più, come nei secoli altomedioevali, l’intera impalcatura diocesana condensata nella persona del vescovo, ma la chiesa (edificio e istituzione) per antonomasia, il prototipo di tutte le altre, Santa Maria, la cattedrale, con il suo personale. È però possibile capire di quale canonica, fra le tante avvicendatesi nei secoli, si trattasse?

 

3. L’Ordinarium: programma di riforma o di conservazione di un’immagine?

Fino ad ora ho inteso illustrare le strutture della canonica, segnalando come ogni loro variazione potesse corrispondere a tappe diverse dell’immagine che i suoi membri avevano di sé e mostravano nella città, ciò soprattutto in momenti quali l’esordio del X secolo, le fasi finali della lotta per le investiture, i decenni iniziali del Duecento. Credo sia a questo punto opportuno soffermarsi, almeno a livello esemplificativo, a riflettere sui percorsi di alcuni uomini della canonica, sui rapporti con il vescovo e con la città, per formulare quindi un’ipotesi sui tempi e le ragioni della stesura dell’Ordinarium.

Il nesso organico fra i canonici e la società cittadina nelle sue fasce più elevate è stato più volte anche qui ribadito e non sorprende. Si tratta di una facile constatazione, lampante alla lettura dei loro nomi. Meno facile è capire quando, come e perché i singoli personaggi diventassero componenti del capitolo e che cosa rappresentasse la potenziale infrazione dello schema di reclutamento nella sensibilità istituzionale della canonica di Santa Maria, nel più ampio quadro della chiesa e della società padovane dei primi decenni del Duecento.

Pare di poter distinguere due categorie di canonici, in questo periodo: da una parte coloro che divenivano tali grazie a una politica o a una tradizione famigliare ed erano notabili cittadini, dall’altra chi perveniva al canonicato dopo un tirocinio per lo più svolto al servizio del vescovo e quale coronamento di una carriera ecclesiastica. Al primo gruppo appartennero, ad esempio, Dainisio Ganfo da Vo, Enrico Baratti-Offreducci e Giacomo da Vigodarzere, i quali furono inclusi nella canonica in giovane età, se nel 1192 erano ancora iuvenes, superiori ai dieci-undici anni ma ben minori dei venticinque[146]. È abbastanza facile concludere che la loro elezione era dovuta alle pressioni delle rispettive famiglie e non allo sviluppo ascendente di un cursus honorum meritorio e fortunato.

Il lungo episcopato di Gerardo Offreducci da Marostica (1165-1213) è punteggiato dalle promozioni dei suoi parenti[147] e collaboratori. Ciò non sarebbe accaduto se il presule non avesse saputo imporsi sulla canonica. Una conferma di tale volontà prevaricatrice viene dalle parole di disappunto a proposito di un arbitrato voluto dal presule circa le decime del borgo di Santa Sofia, il quale sfociò in un accordo che non era piaciuto “nec hodie placet” al capitolo (testimonianza di Zambono), ma che si era dovuto accettare, poiché era stato fatto per ordine del vescovo (testimonianza di Bianco)[148]. Alcuni cappellani episcopali divennero canonici, come Zambonino[149], Todeschino[150], maestro Viviano[151], Episcopello[152], ma soprattutto Floriano, che nel 1203 fu eletto arciprete[153]. La familiarità di Floriano con il presule traspare dalla deposizione che egli rese in un processo del 1194, il cui oggetto era il diritto del vescovo di intromettersi nella nomina dell’abate di Santo Stefano di Carrara. In quell’occasione Floriano affermò di essere stato lui stesso a persuadere Gerardo a ordinare ai propri emissari (l’allora arciprete Zambono e il canonico Todeschino, con il giudice Ottolino) di appellarsi al papa davanti alle eventuali resistenze del capitolo monastico. Inoltre Floriano disse di essersi poi recato con il vescovo e alcuni milites al monastero e, avvertito che i monaci intendevano agire contro i mandati dell’ordinario, raccontò di essersi chinato “ad aures eius [episcopi]”, di avergli rivelato quanto stava per accadere e di aver quindi accolto ed eseguito gli ordini del suo dominus. La deposizione rende palese la grande familiarità se non l’influenza che Floriano aveva come consigliere e fedele del vescovo e spiega la conquista di uno scranno in capitolo e della dignità di arciprete, sottolineando pure la strettezza del legame che Gerardo aveva annodato con i canonici, dalle cui file egli stesso usciva e che sembrano coadiuvarlo in tutte le sue azioni.

Anche i vescovi successivi, Giordano (1214-1229) e Giacomo di Corrado (1229-1239), furono contornati da familiares, essi però non seppero o non poterono, con efficacia pari a Gerardo, farli approdare ai seggi capitolari. I preti Acerbo di Conselve e Alberto furono a lungo cappellani di Giordano[154], come lo fu Arimondo, nipote del vescovo, che divenne arcidiacono di Sacco ma non canonico[155]. Nei documenti si trovano altri nipoti del prelato: Giordanino fratello di Arimondo, Uguccione di Guidone di Bocasso, Giovanni Scortegà, impiegato anche come cameraro episcopale[156]. Giacomo di Corrado aveva percorso l’intera sua carriera nella canonica: semplice membro del capitolo (forse già dal 1192, di certo nel 1202), massaro (1206, 1209), arcidiacono in Montanis (1213-1215), arcidiacono di Padova (1220), arciprete (1221), vescovo (1229-1239), ma i suoi cappellani non approdarono al canonicato, anche se un suo nipote, Filippo, fu arcidiacono in Montanis, e in tale veste accondiscese al divorzio di Ezzelino, finendone in un secondo tempo imprigionato[157]. La provenienza dei documenti che riguardano queste persone dalle sezioni archivistiche di preminente interesse episcopale (Episcopi, Feuda episcopi, in particolare), esclude una loro partecipazione diretta agli affari della canonica e sottolinea una volta di più la separazione delle istituzioni e delle persone che pure avevano numerose occasioni di contiguità, anche fisica, data la vicinanza degli edifici canonicali e del palazzo episcopale.

Questa facile constatazione potrebbe essere indizio dell’affievolita capacità dei vescovi di influire sulle nomine canonicali, che, almeno dall’inizio del secolo XIII, erano votate dal capitolo, e anche dell’assottigliarsi delle opportunità per un out-sider di intrufolarsi fra le maglie di selezione. Tuttavia la distinzione non pregiudicava affatto la collaborazione fra episcopio e il collegio chiericale del duomo, che poteva essere più o meno gradita e riuscita a seconda delle persone, dei momenti e delle poste in gioco, ma c’era. Scorrendo i documenti, ci si rende conto subito di come gli ordinari diocesani partecipassero e confermassero tutte le decisioni di maggior peso dei canonici e come questi ultimi fossero chiamati a condividere la responsabilità degli atti di rilievo compiuti dal vescovo, tanto in spiritualibus quanto in temporalibus.

Certo è che il momento era particolarmente dinamico e richiedeva il continuo ricorso a definizioni di aspetti che prima non creavano preoccupazioni, almeno in apparenza. Si è già visto come fra la fine del secolo XII e il primo quarto del XIII si siano chiariti molti tratti della fisionomia del clero (non solo della canonica) della cattedrale nelle sue funzioni liturgico-religiose, ma pure si sia tentato di dare uno stabile e razionale assetto alle questioni amministrative, legate alla conduzione e allo sfruttamento del patrimonio comune e suddiviso in prebende. Il controllo dei benefici era dunque materia importante e delicata, giacché era un motivo assai palpabile per appetire un seggio capitolare, con tutte le implicazioni relative.

Meditando su ciò si comprende meglio il senso della delibera del 27 aprile 1220, la quale interdiceva a un canonico di percepire i frutti del beneficio se non dopo un anno di continua residenza presso la cattedrale: durante tale tirocinio avrebbe ricevuto solo il vitto[158]. Capire le ragioni precise del provvedimento non è facile, né si possono limitare – come è stato scritto – all’esito del disagio per l’assenza di uno Studium[159]. Da una parte il problema della residenza era reale, vista la tendenza dei canonici ad assentarsi, per studiare o per altri motivi: all’inizio del Duecento i magistri erano almeno sette e sono note le peregrinazioni di Salione Buzzacarini a Toledo[160] e di altri suoi confratelli che si recavano a Bologna o altrove, fin dal XII secolo[161]. La nomina di custodi e di mansionari rispondeva anche al problema di uno scarso numero di preti, aggravato da possibili assenze. Tuttavia, almeno nelle occasioni di riguardo e tenendo a mente il fatto che non sempre tutti vi erano chiamati[162], le partecipazioni al capitolo non erano ridottissime: diciassette voci nel 1213, sedici nel 1218, diciassette nel 1220, diciotto nel 1226, venti nel 1229[163]. La delibera capitolare del 1220 poteva essere d’altra parte uno strumento di difesa contro la tendenza, allora incipiente e che si accentuò verso la metà del secolo, durante il pontificato di Innocenzo IV (1243-1254), secondo la quale i legati papali o il pontefice stesso riservavano a sé benefici di diversa entità o imponevano la nomina di personaggi estranei al luogo e spesso poi non residenti. Una spia di tale prassi potrebbe essere il già citato intervento di Ugolino da Ostia nel 1219[164], ma eloquente è un passaggio del giuramento che dovevano prestare i canonici (e anche i mansionari e i custodi) e che corrispondeva alla lettera a un articolo degli statuti redatti con ogni probabiltà fra l’aprile e il settembre del 1239, anche se forse formalizzavano decisioni precedenti[165]. Ognuno dei confratres doveva impegnarsi, fra le altre cose, a non inviare “litteras pro aliquo recipiendo in canonica Paduana ad dominum papam vel legatum seu legatos, nec aliquem recipiet in canonicum nisi in capitulo convocato ad celebrandam electionem, nisi aliquis esset receptus in capitulo a capitulo vel maiori parte”[166]. Non poteva essere meglio ripetuta la preoccupazione di mantenere un saldo controllo delle cooptazioni. Prima del 1236 anche l’assemblea comunale aveva statuito che il podestà si dovesse adoperare per far accogliere fra i canonici solo Padovani o distrettuali, promettendo protezione agli eletti e sanzioni pecuniarie o detentive contro chi “presentaverit alicui persone litteram aliquam que sit contra illos qui sunt cives Padue et sunt nominati et instituti”[167]. Da questo punto di vista la coscienza canonicale si caricava di un valore difensivo delle proprie prerogative e pure, per dir così, dettato da amor di patria, benché non spassionato. L’essere padovano era considerato titolo essenziale per l’accesso a tale responsabilità, ma il requisito cozzava contro una realtà in ben diverso movimento. Se i viaggi alla scoperta di una più ampia cultura davano spessore internazionale ad alcuni canonici[168], il dischiudersi di scenari nuovi recava pure contraccolpi sgradevoli, come la necessità di integrarsi un sistema più complesso di movimenti di idee, di persone e anche di interessi.

L’intrusione più o meno forzata di “estranei” nel corpo capitolare poteva essere uno dei riflessi, e non il più desiderato, di un momento di straordinario sviluppo di Padova[169], durante il quale l’intera chiesa locale viveva un grande fermento ove si manifestavano sintomi eterogenei se non contraddittori: la pluralità di presenze religiose spesso non regolate ma molto vivaci che andavano dalle esperienze di singole persone, quali eremiti, penitenti, conversi, a quelle di gruppi di ineguale consistenza tesi alla realizzazione di una vita religiosa più attiva[170]; la vitalità del monachesimo tradizionale, rappresentato dal monastero di Santa Giustina o dalla prova di santità di Beatrice d’Este[171]; la versatilità di istituzioni innovative abilmente costruite attorno a personalità poliedriche e certamente carismatiche, come gli Albi di Giordano Forzatè[172]; il precoce impianto degli ordini mendicanti, in relazione sicura con il ruolo culturale assunto dopo l’innesto dello Studium generale[173]; la prepotente fioritura della santità canonizzata nella persona di Antonio da Lisbona[174]; il raccordo armonico fra i vertici ecclesiastici locali con la politica papale di revisione e riforma nel pieno dispiegarsi dello sforzo di applicazione dei canoni conciliari del lateranense IV[175].

Nelle pagine precedenti si è visto come la fenomenologia dell’identità canonicale nel primo Duecento si sostanziasse di diversi caratteri. Si diventava canonici grazie all’appartenenza a famiglie eminenti della società cittadina, preferibilmente corroborata da amicizia o parentela con il vescovo, ovvero grazie al tirocinio nella curia vescovile, sostenuti da un’adeguata preparazione culturale, il che comportava una distinzione unita a una rappresentatività sociale capace di garantire l’assunzione di incarichi diplomatici, politici, ecclesiali. Il fardello delle temporalità, dall’amministrazione di beni a quella della giustizia, dava peso e autorità ai canonici. Essi lo sapevano bene, come sapevano quanto fosse determinate nella costituzione della propria fisionomia l’altra faccia della loro quotidianità: quella della vita religiosa, della cura d’anime, del contatto con i fedeli, delle pratiche liturgiche, ma prestate all’interno di quella chiesa speciale che era il duomo. La lettura e l’interpretazione dell’Ordinarium – anch’esso, lo ripeto, espressione e frutto non casuale di un momento della vita della canonica di Santa Maria[176] – acquista dunque significato anche in relazione a una storicizzazione di queste funzioni, sia si volesse preservarle per il futuro, sia si trattasse di recuperarle a nuova vita.

Con una nota marginale datata 1562 Lodovico Zabarella, arciprete della cattedrale, avvertì di aver letto l’“antichissimo” testo, “admirans simul religionem atque simplicitatem”[177]. La meraviglia e l’ammirazione dello Zabarella erano dettate presumibilmente da quel senso di vaga nostalgia che il richiamo a un passato idealizzato, privo di dolore, delle miserie e degli intoppi e delle imperfezioni della realtà, infonde a chi si trova sommerso dalla fatica di affrontare le giornate della vita. Nei tempi andati tutto appariva più semplice e genuino. Tuttavia era indubbio che le cose erano cambiate: l’Ordinario del Duecento era una sorta di reliquia e i canonici erano diversi. Eppure il suo antico redattore era stato mosso a scriverlo dalla volontà di conservare la scientia dei ministri allora operanti nella chiesa padovana e per erudire i futuri[178]: si illudeva insomma di fissare per sempre consuetudini, riti, cerimonie, sottraendoli alla caducità delle contingenze.

Il problema della datazione dell’Ordinarium, salvo sorprese, non è solubile senza ombre e forse non sarebbe nemmeno essenziale (data la natura normativa della fonte e rispetto alle proprie implicite intenzioni), tuttavia può essere in qualche misura aggirato ritagliandogli un contesto storico che in tanto lo spiega in quanto ne riceve ulteriore lume e che soprattutto non si semplifica in un riferimento cronologico puntuale, ma s’allarga a un concetto di durata più ampio, in cui collocare una concezione del clero della cattedrale e dei suoi doveri più estesa di un giorno o di un anno, almeno nei programmi dichiarati di chi lo scriveva, valevole come teoria e realtà di un periodo, di una nebulosa di anni tanto estesa quanto la vita e le memorie e i progetti progressivamente sfrangiati dei suoi protagonisti: come un albero che irrobustisce e ostenta il suo tronco nel presente, ma affonda le radici e trova la linfa vitale in un passato di dispari profondità e protende i rami verso un futuro non prevedibile.

Circa gli anni in cui porre la scrittura del Liber della chiesa padovana, sono note le soluzioni suggerite dal Dondi Dall’Orologio (1261-1263)[179], da Beniamino Pagnin (1235-1240)[180], da Cesira Gasparotto (1234-1239)[181]. Da ultimo, su basi stilistiche e ragionando in modo particolare sull’unica miniatura che istoria il codice in apertura, si è tornati a una datazione vicina a quella proposta dal Dondi e forse anche più tarda, avvalorata anche da ragionamenti sulle festività incluse nel proprio dei santi padovano [182]. Queste recenti proposte sembrano accettabili e ben argomentate, vorrei tuttavia riflettere sulla possibile (o, meglio, sulle possibili) congruità storica di un progetto come quello di scrittura dell’Ordinario. La Gasparotto fissava un termine post quem nel 3 luglio 1234, giorno della canonizzazione di Domenico di Caleruega, la cui festa è menzionata nell’Ordinarium[183], e uno ante quem nel 3 aprile 1239, quando morì il vescovo Giacomo di Corrado, inaugurando un periodo di smarrimento per la chiesa padovana, priva di pastore fino all’ingresso di Giovanni Forzatè, nel 1256, dopo la caduta del regime ezzeliniano. Più precisamente, secondo la Gasparotto, la composizione dell’Ordinario andava posta in relazione con la sinodo diocesana del 16 dicembre 1233, della quale si ha memoria indiretta da un privilegio vescovile di conferma dei beni dei canonici concesso in quella circostanza[184]. Si tratterebbe dunque di un’iniziativa di riforma, analoga a quella assunta dal vescovo di Castello, Pietro Pino, anch’egli promotore di una sinodo dedicata al culto liturgico dalla quale prese corpo l’Ordinario veneziano[185] e soprattutto uomo di fittissime relazioni con la curia romana e con la canonica padovana fin dagli anni venti del Duecento, quando fu giudice delegato, e sospetto di parzialità in favore della canonica, nelle vertenze scaturite dalle elezioni episcopali[186].

L’accoppiata sinodo-Ordinario sembrerebbe persuasiva e non inusitata[187]; sennonché è difficilmente sostenibile che quella del 1233 sia stata l’unica sinodo diocesana tenuta a Padova in quegli anni. Ciò non soltanto per la ricorrenza annuale prevista in teoria dal sesto canone del concilio lateranense del 1215 e dallo stesso Ordinario padovano[188], ma anche per la difficoltà che si incontra nel censire le ricorrenze di una pratica che indubbiamente fu molto più diffusa e frequente di quanto rimanga memoria in superstiti raccolte di costituzioni o in altri documenti di varia ispirazione[189]. Detto ciò, se si riflette sull’alto grado di adesione alle direttive pontificie manifestato dai vescovi Giordano e Giacomo di Corrado, sulla sollecitudine da essi mostrata per l’amministrazione della diocesi, non è un azzardo ipotizzare la convocazione di più di una sinodo. Così è ammissibile che la redazione dell’Ordinarium rientrasse nell’ambito delle iniziative di revisione e razionalizzazione delle pratiche, anche liturgiche, maturate in quegli anni[190]. Il che non contrasta con il fatto, già accennato, che il compilatore intendesse approntare uno strumento aggiornato di conservazione delle consuetudini della chiesa padovana e di istruzione dei suoi chierici. Ma è possibile conciliare una finalità siffatta con avvenimenti storici di diversa natura?

Evento nodale, si sa, per la Marca Trevigiana del XIII secolo fu il ventennio ezzeliniano. A Padova l’esperienza ebbe inizio ne 1236 e subito suscitò inquietudini e paure, oltre che vere epurazioni, anche a danno di alcuni membri della chiesa locale, sebbene non si possa parlare di programmatica ferocia del signore, manifestatasi solo più tardi, dopo il 1243-1249[191]. Tuttavia è noto lo zelo con cui il da Romano perseguitò Giordano Forzatè, priore degli Albi, e l’abate di Santa Giustina, Arnaldo da Limena, entrambi protagonisti della storia non solo religiosa di Padova e poi approdati, grazie appunto all’alone di martirio di cui erano circonfusi, all’onore degli altari con una valenza ideologica di oppositori del regime[192].

Che la situazione fosse delicata è chiaro anche dall’impossibilità di pervenire alla nomina e soprattutto alla residenza del vescovo[193]. Il canonico Salione Buzzacarini, che pure fu amico e astrologo di Ezzelino, nel luglio del 1239 si recò a Venezia davanti ai delegati papali e si giustificò, quale procuratore della canonica, per non essersi presentato in precedenza a causa del timore di essere ucciso insieme con i confratelli[194]. Nel settembre dello stesso anno fu posto sul rogo il canonico Pigolo, coinvolto nella prima congiura contro Ezzelino[195]. L’arciprete Diolacorra, che ancora nel gennaio del 1239 presenziava al capitolo generale degli Albi come vicario del vescovo[196] e nell’aprile era impegnato nella controversia con l’abate Arnaldo di Santa Giustina per l’elezione del nuovo pastore[197], in un’epoca non determinabile lasciò Padova e lo si ritrova nel 1243 a Vercelli e poi a Milano, al servizio del legato pontificio Gregorio da Montelongo, del quale si dice cappellano[198]. Con il passare degli anni, inoltre, si manifestarono fra i canonici orientamenti difformi di favore o di ostilità nei confronti di Ezzelino, che portarono a collaborazioni, come quelle, poi finite tragicamente, dell’arcidiacono di Padova Enrico Baratti-Offreducci, la persona che – anche per la naturale funzione istituzionale – sembra aver agito sino a quel momento come vicario del vescovo[199], e di Menadusio[200]. Si tratta tuttavia di fatti avvenuti solo verso l’epilogo del dominio del da Romano e che non mi pare si debbano ascrivere a un’avversione del “tiranno” verso la canonica in sé, ma piuttosto si indirizzavano contro gli uomini, a loro volta espressione di gruppi, amicizie, parentele, parti, a lui contrarie; quindi i canonici non cadevano sue vittime in quanto tali, ma perché legati a una determinata parentela o aggregato famigliare che in quel momento gli si era mostrato nemico[201]. In ogni caso l’impatto sull’istituzione fu considerevole.

Il 20 giugno 1256 Padova fu liberata e nell’agosto, fra i tanti esuli che rimpatriavano, ritornò pure Giovanni Forzatè, ex canonico e vescovo in carica per nomina di Innocenzo IV dal 1250, che per la prima volta poté sedere sulla propria cattedra[202]. Intraprese ben presto un’energica opera di recupero dei diritti dell’episcopato[203] e di ricostruzione e riassetto delle istituzioni ecclesiastiche locali, che gli valse pure attriti e opposizioni. I contrasti più accesi li ebbe con i Minori, quando giunse a proibire ai fedeli di ascoltarne la predicazione e di accostarsi alle loro confessioni[204], ma soprattutto con il comune cittadino, a partire dal 1265, con il culmine nel 1282, quando fu approvato uno statuto che comminava un’irrisoria pena pecuniaria per chi si fosse macchiato dell’omicidio di un prete secolare[205]. Anche la canonica fu coinvolta e partecipò al generale clima di ripristino di una situazione di normalità, ovvero di restaurazione. Riflesso della volontà di riallacciare un discorso interrotto è la ripresa di una discreta documentazione, mentre quella stilata fra il 1238 e il 1256 fu vittima della sistematica damnatio memoriae seguita alla caduta di Ezzelino. Nel gennaio del 1257 alla convocazione del capitolo avevano aderito sedici suoi membri, alcuni dei quali cumulavano ormai due o tre decenni di militanza, e in tale assemblea furono fissate le regole e le mansioni cui doveva attenersi il sacrista[206]. Nel maggio dello stesso anno i canonici elessero il confratello Aleardino di Verona quale nunzio e procuratore in tutte le cause giudiziarie che li coinvolgevano[207]. Nel febbraio del 1258 l’arciprete Pietro Scrovegni (canonico fin dagli anni trenta) ottenne da Alessandro IV l’indulto per cui nessuno avrebbe potuto acquisire una prebenda o un qualsiasi beneficio spettante alla collazione della canonica tramite una lettera papale o legatina, ma con la clausola “nisi dicte sedis littere impetrande plenam et expressam fecerint de indulto huiusmodi mencionem”[208]. Del 20 luglio 1259 è invece l’esecuzione di una sentenza di scomunica fulminata dal vicario episcopale contro il giudice Antonio Aicardini, perché rifiutava di pagare le decime di spettanza dei canonici[209]. Sono pochi spunti, ma, se è lecito scoprirvi un collegamento, mostrano nel loro insieme un fervore di risveglio e di revisione decollato nei mesi seguenti la chiusura dell’esperimento ezzeliniano. Sono del resto iniziative che si collocano anche nel solco di una tradizione (ad esempio, il privilegio di Alessandro IV riprende gli statuti del 1239) e hanno l’aria di voler riannodare fili recisi, di ridar vita a quanto era stato accantonato e intermesso, nonostante i tempi fossero cambiati, a volte irrimediabilmente.

Quanto avveniva sul piano del recupero e del riordino di beni, diritti, strutture estendeva il proprio influsso a un più arioso disegno di ricomposizione, dal quale non erano esclusi i temi più specificamente religiosi ed ecclesiastici. Il vescovo Giovanni Forzatè fu attivo e attento nella riorganizzazione del clero secolare cittadino[210] e in una scomparsa epigrafe che ne elogiava i meriti, un tempo visibile presso il suo sepolcro, nella cattedrale, era paragonato nei costumi a san Gregorio, nella scienza a Salomone, nella vita a san Prosdocimo: come dire al fondatore della diocesi patavina. Al di là dell’amplificazione insita nelle formule celebrative, era il riconoscimento di un fattivo impegno di ricostruzione.

È in questo avvicendarsi d’eventi e di stati d’animo contrastanti, fra gli anni quaranta e sessanta del Duecento, nei decenni che conobbero i moti di ripiegamento e di rinascita di una chiesa e degli uomini che la impersonavano, che si deve trovar posto anche all’idea di realizzare il Liber ordinarius; non è però agevole comprenderne il momento preciso. A un estremo si pongono l’inizio dell’età ezzeliniana, la morte del vescovo Giacomo, i contrasti ai vertici delle istituzioni locali per una successione impossibile, le incertezze e le inquietudini che ne sortivano. Ovviamente i canonici non potevano prevedere il proprio futuro nei risvolti più tragici, ma è presumibile sentissero il disagio dell’insicurezza di una navigazione senza guida, soprattutto quando si trattava di avventurarsi fuori dalla rotta additata dai propri ruoli squisitamente ecclesiastici e di monopolio del sacro. L’Ordinarium, imperniato sull’organigramma interno del clero del duomo e sul ciclico ripetersi delle giornate liturgiche, poteva rappresentare una risposta programmatica a un comprensibile bisogno di identità e di stabilità. Il suo contenuto obbligava a concentrarsi sul campo più specificamente religioso, su quell’essenza indelebile e inalienabile che non poteva essere sottratta alla canonica, alla sua coscienza, alla sua missione, pena l’estinzione. Ne deriva la sensazione, verosimilmente fallace e unilaterale o semplicemente troppo ardita, che all’ipotetico contrarsi delle autonomie operative dei canonici nelle angustie di un regime via via più oppressivo corrispondesse il dilatarsi dello spazio religioso-liturgico-devozionale. Anche in questo ambito il volto della canonica – o, forse meglio, del clero della cattedrale – assumeva tuttavia lineamenti peculiari, derivati da una schietta volontà di autorappresentazione, che tenacemente si preoccupava di segnare divergenze, attribuendo a ciascuno una mansione definita, e convergenze, delimitando i contorni di un aggregato chiericale deputato alla cura della cattedrale.

Una suggestione particolare, per avvalorare una simile ipotesi, riserva nel Liber l’uso del perfetto, oltre che del presente, quando sono descritte le funzioni episcopali: “Consuevit episcopus…”[211]. I verbi al passato sono talvolta adoperati anche per altri personaggi (l’arciprete[212], il cantor[213]), ma sono particolarmente frequenti per il vescovo, come si rammentassero consuetudini momentaneamente sospese, per l’assenza del pastore. Se così fosse, la scrittura dovrebbe essere dilazionata a un periodo posteriore all’aprile del 1239: per la lunga vacanza della sede, dopo il decesso di Giacomo di Corrado, e per la forzata lontananza del pastore eletto. Essa acquisterebbe un significato che non solo s’aggancia alle motivazioni correnti per cui si concepivano opere di un tal genere, collegate appunto con un moto complessivo di riforma, di razionalizzazione, di revisione liturgica, di prassi sinodale, ma anche alle urgenze di conservazione di una chiesa che subiva il trauma di una vacanza e si preoccupava di mantenere saldi i confini delle sue tradizioni, di perpetuare la propria memoria, di evitare sbandamenti ulteriori.

Ma i medesimi passi e le medesime suggestioni sono interpretabili anche con un significato opposto se collocati, e forse con maggiore ragione dati i progressi nella collocazione di tratti stilistici, cultuali e formali del codice[214], in un contesto diverso e speculare, quello della restaurazione seguita alla sconfitta del tiranno e al ritorno dei protagonisti esiliati. Non si sarebbe trattato allora di mettere in salvo un patrimonio di riti e di consapevolezze, ma di ripescarli dalla memoria, con l’intento di riconnettersi ad abitudini più o meno traumaticamente rescisse. La riforma sarebbe consistita nel ricomporre l’ordine e l’unità precedenti, nel ritorno ai tempi andati, alla “forma” autentica e approvata dalla tradizione. Non novità, dunque, ma ripristino della consuetudine.

Gli elementi interni dell’Ordinarium non facilitano dunque la comprensione del contesto allargato in cui può essere nato, né rendono decisive e senza dubbi le ipotesi. Anzi, la loro lettura è ambivalente e all’apparenza crea incertezze e vaghezza. Il suo impianto e la sua funzionalità, a seconda di come li si guardi, sono interpretabili sia come riflesso di un programma di riforma, sia come mezzo di difesa e di conservazione, sia come componenti di una più ampia volontà di restaurazione. In ogni caso contribuiscono a precisare la personalità della canonica e del clero della cattedrale. Da una parte l’estensore sembra richiamare il passato, dall’altra cristallizzare il presente: l’esempio è l’ordinamento del clero della cattedrale, che rispecchiava la situazione costituitasi nei primi decenni del Duecento, ma che mantenne una durata di parecchi decenni. Si rifletteva una situazione attuale, che al tempo stesso voleva essere un modello ideale da perpetuare. Le incertezze nel tentativo di legare l’Ordinarium a un momento ristretto e puntuale della vita della chiesa maggiore padovana, e quindi il riscontro della sua validità in molte e diverse stagioni, segnalano tacitamente la riuscita dell’opera, giacché il redattore non badava all’effimero, ma voleva fissare un’immagine duratura del clero della cattedrale e una ritualità adattabile per generazioni e generazioni. Ciò che resta allo storico è la constatazione della forza di autorappresentazione e di profonda ostentazione dell’identità della canonica dichiarata dall’Ordinario; fatte salve tutte le cautele connesse con la tipologia della fonte in sé.

È esattamente quanto mi premeva sottolineare rispetto ai processi di definizione e modifica delle cangianti personalità e ossatura della canonica, in questo caso nella sua forma allargata, comprendente l’intero gruppo chiericale orbitante attorno al duomo di Santa Maria. L’Ordinario è così un frutto non casuale: certamente erede e tributario di una tradizione e di una memoria distintiva, ma nel contempo espressione di una novità straordinariamente varia e complessa e sofferta, se si vuole, avvertita come impegnativa per il presente e orientata a ipotecare il futuro.


Note

[1] L’opera è manoscritta in versione latina: Biblioteca del Seminario di Padova, ms. 563; una copia italiana è in Biblioteca del Museo civico di Padova, ms. BP 1755, I-II. Sul Brunacci: M. Zorzato, Brunacci Giovanni, in DBI, XIV, Roma, Istituto della Enciclopedia italiana, 1972, p. 518-523; Ead., Giovanni Brunacci storico della chiesa padovana, in Monselice. Storia, cultura e arte in un centro “minore” del Veneto, a cura di A. Rigon, Monselice, Canova, 1994, p. 633-643.

[2] F.S. Dondi Dall’Orologio, Dissertazioni sopra l’istoria ecclesiastica padovana, Padova, Tipografia del Seminario, 1802 (I-II), 1807 (III-IV), 1808 (V), 1812 (VI), 1813 (VII), 1815 (VIII), 1817 (IX). Sul Dondi, vescovo di Padova fra il 1807 e il 1819: P. Preto, Dondi Dall’Orologio Francesco Scipione, in DBI, XLI, Roma, Istituto della Enciclopedia italiana, 1992, p. 92-95, con bibliografia, ma si vedano anche: P. Preto, Francesco Scipione Dondi Dall’Orologio, vescovo “giacobino” e uomo di cultura tra Francesi e Austriaci, in Contributi alla bibliografia storica della chiesa padovana, 6, Padova, Istituto per la storia ecclesiastica padovana, 1991, p. 11-30; E. Barile, Bibliografia degli scritti di Francesco Scipione Dondi Dall’Orologio, ibidem, p. 47-59.

[3] F.S. Dondi Dall’Orologio, Serie cronologico-istorica dei canonici di Padova, Padova, Tipografia del Seminario, 1805.

[4] CDP, I, p. LXXXVII-LXXXIX; cfr. S. Bortolami, Andrea Gloria (1821-1911) e il suo contributo alla storia ecclesiastica padovana, in Contributi alla bibliografia storica della chiesa padovana, 3-4, Padova, Istituto per la storia ecclesiastica padovana, 1981, p. 11-44.

[5] A. Barzon, Documenti di vita comune in Padova (secc. XI-XII), in La vita comune del clero nei secoli XI e XII, Atti della Settimana di studio: Mendola, settembre 1959, Milano, Vita e Pensiero, 1962, II, p. 138-141.

[6] Il caso padovano non si allontana dalle considerazioni generali, sulle consistenze archivistiche nelle città italiane, di P. Cammarosano, Italia medievale. Struttura e geografia delle fonti, Roma, La Nuova Italia Scientifica, 1991, p. 49-61.

[7] Cito, fra la cospicua bibliografia, solo P. Sambin, L’ordinamento parrocchiale di Padova nel medioevo, Padova, CEDAM, 1941; Id., Note sull’organizzazione parrocchiale di Padova nel secolo XIII, in Id., Studi di storia ecclesiastica medioevale, Venezia, Deputazione editrice, 1954, p. 3-64. Sull’opera di Paolo Sambin: R. Brentano, Italian Ecclesiastical History. The Sambin Revolution, “Medievalia et Humanistica”, n.s., 14 (1986), p. 189-197; si vedano anche le note di G. Cracco, Presentazione a Viridarium floridum. Studi di storia veneta offerti dagli allievi a Paolo Sambin, a cura di M.C. Billanovich, G. Cracco, A. Rigon, Padova, Antenore, 1984, p. IX-XIII.

[8] Cfr., ad esempio: A. Rigon, Le elezioni vescovili nel processo di sviluppo delle istituzioni ecclesiastiche di Padova, “Mélanges de l’École française de Rome, Moyen Age-Temps modernes”, 89 (1977), p. 371-409; Id., Clero e città. “Fratalea cappellanorum”, parroci, cura d’anime in Padova dal XII al XV secolo, Padova, Istituto per la storia ecclesiastica padovana, 1988, part. p. 11-13.

[9] S. Bortolami, Pieve e “territorium civitatis” nel medioevo. Ricerche sul campione padovano, in Pievi, parrocchie e clero nel Veneto dal X al XV secolo, a cura di P. Sambin, Venezia, Deputazione editrice, 1987, p. 1-91 (ora in S. Bortolami, Chiese, spazi, società nelle Venezie medioevali, Roma, Herder, 1999, p. 261-364); ma rinvio pure a: S. Bortolami, Fra “alte domus” e “populares homines”: il comune di Padova e il suo sviluppo prima di Ezzelino, in Storia e cultura a Padova nell’età di sant’Antonio, Atti del Convegno internazionale di studi, Padova-Monselice, 1-4 ottobre 1981, Padova, Istituto per la storia ecclesiastica padovana, 1985, p. 3-74; Id., “Honor civitatis”. Società comunale ed esperienze di governo signorile nella Padova ezzeliniana, in Nuovi studi ezzeliniani, a cura di G. Cracco, Roma, ISIME, 1992, p. 161-239.

[10] S. Collodo, Lo sfruttamento dei benefici canonicali, in Ead., Una società in trasformazione, Padova tra XI e XV secolo, Padova, Antenore, 1990, p. 277-296 (già in G. Cracco, A. Castagnetti, S. Collodo, Studi sul medioevo veneto, Torino, Giappichelli, 1981, p. 95-110, con il titolo: Per la storia della signoria cararrese: lo sfruttamento dei benefici canonicali di Padova nel XIV secolo).

[11] P. Marangon, Alle origini dell’aristotelismo padovano (sec. XII-XIII), Padova, Antenore, 1977; Id., La “Quadriga” e i “Proverbi” di maestro Arsegino. Cultura e scuole a Padova prima del 1222, in Id., Ad cognitionem scientiae festinare. Gli studi nell’Università e nei conventi di Padova nei secoli XIII e XIV, a cura di T. Pesenti, Trieste, Lint, 1997, p. 1-46 (già in “Quaderni per la storia dell’Università di Padova”, 9-10 [1976-1977], p. 1-44).

[12] Diocesi di Padova, a cura di P. Gios, Padova, Gregoriana, 1996 (qui interessano particolarmente gli scritti di S. Bortolami, Da Carlo Magno al 1200, p. 49-116; A. Rigon, La chiesa nell’età comunale e carrarese, p. 119-159).

[13] A. Tilatti, Istituzioni e culto dei santi a Padova fra VI e XII secolo, Roma, Herder, 1997, part. p. 35-47, 131-140, 277-292. Molti dei riferimenti, delle riflessioni e delle conclusioni che qui verranno espressi, specialmente sull’articolazione istituzionale della canonica fino allo spirare del XII secolo, riprendono quanto esposto in quella sede. Mi scuso per la frequenza delle autocitazioni. Ho recentemente attinto all’Ordinarium per alcune notazioni sulle pratiche religiose dei fedeli padovani nel mio Donne e uomini nella cattedrale di Padova nel Duecento, “Quaderni di storia religiosa”, 6 (1999) (= Fedeli in chiesa), p. 85-115.

[14] Sul motivo della vita comune cfr. La vita comune del clero, cit. alla nota 5; P. Toubert, La vie commune des clercs aux XIe-XIIe siècles: un questionnaire, “Revue historique”, 231 (1964), p. 11-26 (ora in Id., Études sur l’Italie médiévale (IXe-XIVe siècle), London, Variorum Reprints, 1976, n. X); Istituzioni monastiche e istituzioni canonicali in Occidente (1123-1215), Atti della settima Settimana internazionale di studio, Mendola, 28 agosto – 3 settembre 1977, Milano, Vita e Pensiero, 1980, in part. i saggi di R. Foreville, G. Picasso, C.D. Fonseca.

[15] Ad esempio, sono praticabili scelte prosopografiche come quelle di H. Millet, Les chanoines de la cathédrale de Laon (1272-1412), Rome, École française de Rome, 1982; o intese a una storia complessiva di uomini e istituzioni: J. Pycke, Le chapitre cathédral Notre-Dame de Tournai de la fin du XIe siècle à la fin du XIIIe siècle. Son organisation, sa vie, ses membres, Louvain Bruxelles, Collège Erasme Editions Nauwelaerts, 1986; o più interessate alle realtà patrimoniali: E.V. Crosby, Bishop and Chapter in Twelfth-Century England. A study of the “Mensa episcopalis”, Cambridge, Cambridge University Press, 1994; per l’Italia non mancano ricerche, in genere attente agli aspetti istituzionali speculari ai contesti urbani e alle realtà politico-sociali di riferimento: G. Chittolini, I beni terrieri del capitolo di Cremona fra il XIII e il XIV secolo, Milano Roma Napoli Città di Castello 1965; V. Polonio, Patrimonio e investimenti del capitolo di San Lorenzo nei secoli XII-XIV, in Genova, Pisa e il Mediterraneo tra Due e Trecento, Per il VII centenario della battaglia della Meloria, Genova, 24-27 settembre 1984, Genova, Società ligure di storia patria, 1984, p. 231-281; M. Ronzani, La chiesa cittadina pisana tra Due e Trecento, ibidem, p. 284-347; N. D’Acunto, Vescovi e canonici ad Assisi nella prima metà del secolo XIII, Assisi, Accademia Properziana del Subasio, 1996, p. 60-65; R. Savigni, Episcopato e società cittadina a Lucca da Anselmo II (†1086) a Roberto (†1225), Lucca, Accademia lucchese di scienze lettere ed arti - Edizioni San Marco, 1996, p. 137-156, 241-266, 283-300, 411-473; preoccupato di isolare un universo umano e religioso in movimento è R. Brentano, A New World in a Small Place. Church and Religion in the Diocese of Rieti (1188-1378), Berkeley Los Angeles London, University of California Press, 1994, p. 184-232; oscilla fra indirizzi prosopografici e suggestioni storiografiche “tradizionali” P. Montaubin, Entre gloire curiale et vie commune: le chapitre cathédrale d’Anagni au XIIIe siècle, “Mélanges de l’École française de Rome – Moyen Age”, 109 (1997), p. 303-442. Segnalerò ulteriore bibliografia in corrispondenza di questioni peculiari, come, ad esempio, le prerogative di elezione episcopale detenute dai capitoli.

[16] “La rédaction d’un ordinaire n’est pas fortuite”, sostiene Éric Palazzo (Les ordinaires liturgiques comme source pour l’histoire du Moyen Age. A propos d’ouvrages récents, “Revue Mabillon”, n.s., 3 (t. 64) [1992], p. 233-240, part. p. 236). Per una tipologia della fonte: E. Foley, The “libri ordinarii”: An Introduction, “Ephemerides liturgicae”, 102 (1988), p. 129-137; A.G. Martimort, Les “ordines”, les ordinaires et les cérémoniaux, Turnhout, Brepols, 1991 (“Typologie des sources du Moyen Age occidental”, 56), p. 51-85.

[17] “Eodem tempore [...] ecce Vitaliano regi et omnibus suis complacuit domum Domino hedifficari [...] Quod constructum beatus Prosdocimus [...] quosdam presbiteros, quosdam autem diaconos et totius ordinis viros ordinavit, et eisdem cum eo conversantibus diurnis nocturnisque horis domino Deo nostro fideliter ministravit et sacrificando hostiam laudis vota sua in conspectu populi reddidit”: Vita sancti Prosdocimi episcopi, in I. Daniele, San Prosdocimo vescovo di Padova nella leggenda nel culto nella storia, Padova, Istituto per la storia ecclesiastica padovana, 1987, p. 235-248, part. p. 242.

[18] Tilatti, Istituzioni, p. 91-118. Si veda, su Prosdocimo, la scheda di S. Ceccon, Prosdocimo, in Santi e beati della diocesi di Padova, Padova, Gregoriana, 1999, p. 279-286.

[19] I diplomi di Berengario I, a cura di L. Schiaparelli, Roma, ISIME, 1903, n. CXVIII p. 308-311 (cfr. pure CDP, I, n. 31). Trascuro qui un documento dell’874, il cosiddetto testamento del vescovo Rorio (CDP, I, n. 15), ove comparirebbero le sottoscrizioni di alcuni canonici: esse sono troppo sospette per poter essere considerate prova dell’esistenza della canonica (rimando ancora al mio, Istituzioni, p. 32 nota 128, p. 39-40, 279 e nota 152).

[20] Per l’identificazione delle località cfr. Bortolami, Pieve, p. 5-6 e tavola II; A. Castagnetti, Il Veneto nell’alto medioevo, Verona, LUE, 1990, p. 197-198.

[21] Conradi I. Heinrici I. et Ottonis I. diplomata, ed. Th. Sickel in Monumenta Germaniae historica, Diplomatum regum et imperatorum Germaniae, I, Hannoverae, impensis Bibliopolii Hahniani, 1879-1884, n. 143 p. 223-224 (CDP, I, n. 41).

[22] Cfr. A.A. Settia, “Ecclesiam incastellare”: chiese e castelli in diocesi di Padova, in Id., Chiese, strade e fortezze nell’Italia medievale, Roma, Herder, 1991, p. 67-97, part. p. 74-76 (già in Contributi alla bibliografia storica della chiesa padovana, 3-4, Padova, Istituto per la storia ecclesiastica padovana, 1981, p. 47-75).

[23] A proposito della connotazione signorile di tali concessioni: Castagnetti, Il Veneto, p. 242-243.

[24] Sull’uso della storia nell’agiografia episcopale del X secolo in Italia settentrionale: J.C. Picard, Le souvenir des évêques. Sépultures, listes épiscopales et culte des évêques en Italie du Nord des origines au Xe siècle, Rome, École française de Rome, 1988, p. 679-719. Per l’uso ideologico del passato nel secolo XII: The Perception of the Past in Twelfth Century Europe, ed. by P. Magdalino, London Rio Grande, The Hambledon Press, 1992; e si veda il numero monografico Erudizione e fonti, “Quaderni storici”, n.s., 93 (1996).

[25] La formazione di collegi chiericali annessi o meno alle chiese episcopali, come è noto, fu favorita dai Carolingi: C. Dereine, Chanoines, in Dictionnaire d’histoire et géographie ecclésiastiques, XII, Paris, Letouzey et Ané, 1953, col. 353-405, part. col. 364-365; C. Violante, Le istituzioni ecclesiastiche nell’Italia centro-settentrionale durante il medioevo: province, diocesi, sedi vescovili, in Forme di potere e struttura sociale in Italia nel medioevo, a cura di G. Rossetti, Bologna, Il Mulino, 1977, p. 83-111, part. p. 99-102 (ora in C. Violante, Ricerche sulle istituzioni ecclesiastiche dell’Italia centro-settentrionale nel medioevo, Palermo, Accademia nazionale di scienze lettere ed arti, 1986, p. 25-62).

[26] J. Nelson, Literacy in Carolingian Government, in The Uses of Literacy in Early Medieval Europe, ed. R. McKitterick, Cambridge, Cambridge University Press, 1990, p. 258-296, part. p. 265-271; più in generale M. Banniard, Viva voce. Culture écrite et culture orale, Paris, Du Cerf, 1990; per un esempio veronese: C. La Rocca, Pacifico di Verona. Il passato carolingio nella costruzione della memoria urbana, Roma, ISIME, 1995, p. 81.

[27] Circa i complessi problemi legati a una tal sorta di definizioni territoriali (nella loro natura e valenza non solo religiosa) e alle incombenze spirituali e patrimonialità a esse correlate: Sambin, L’ordinamento parrocchiale, p. 9-21; Bortolami, Pieve, p. 6-7. In linea generale, per una riflessione sulla matrice urbana: M. Ronzani, Aspetti e problemi delle pievi e delle parrocchie cittadine nell’Italia centro-settentrionale, in Pievi e parrocchie in Italia nel basso medioevo (sec. XIII-XV), Atti del VI Convegno di storia della chiesa in Italia, Firenze, 21-25 settembre 1981, Roma, Herder, 1984, p. 307-349, part. p. 310-315.

[28] Per Tournai ed Angers: Pycke, Le chapitre, p. 98; G. Robin, Le problème de la vie commune au chapitre de la cathédrale Saint-Maurice d’Angers du IXe au XIIe siècle, “Cahiers de civilisation médiévale”, 13 (1970), p. 305-322, part. p. 308-309; per i casi italiani cfr. La vita comune del clero, II, rispettivamente i saggi di A. Claretta, Le canoniche di Lodi, p. 150-159; A. Montecchio, Cenni storici sulla canonica cattedrale di Mantova nei secoli XI e XII, p. 163-180; G. Pistoni, La canonica della chiesa cattedrale di Modena nei secoli XI e XII, p. 181-191; G. Fasoli, Notizie sul capitolo di Bologna nel X-XI secolo, p. 192-198; A. Vasina, Lineamenti di vita comune del clero presso la cattedrale ravennate nei secoli XI e XII, p. 199-226; E. Cristiani, Le origini della vita canonica nella diocesi di Volterra (sec. X-XI), p. 236-244.

[29] La Rocca, Pacifico, p. 81-84.

[30] I diplomi di Berengario, n. CXVIII p. 311.

[31] La formula è tratta dalla donazione di una donna padovana, Pasquasia, del giugno 950: CDP, I, n. 40.

[32] Rispettivamente CDP, I, n. 47, 63. Si noti che la datazione al 964 della prima sinodo è controversa, essendoci chi, giudicando comunque genuino il testo, propende per gli anni 956-957: R. Pauler, Das Regnum Italiae in ottonischer Zeit. Markgrafen, Grafen und Bischöfe als politische Kräfte, Tübingen, Max Niemeyer Verlag, 1982, p. 128-129; J. Grendele, I vescovi veneti nell’alto medioevo (secoli VIII inizio XI), “Studi veneziani”, n.s., 29 (1995), p. 211-275, part. p. 233-234.

[33] Cfr. Bortolami, Pieve, p. 6; Tilatti, Istituzioni, p. 45.

[34] Le attribuzioni fortemente politiche assunte dai vescovi in età carolingia aumentarono la responsabilità e il peso delle canoniche nella cura d’anime, al segno che esse divennero spesso le vere titolari della matrice urbana: Violante, Le istituzioni ecclesiastiche, p. 101-102; cfr. Dereine, Chanoines, col. 368-370. Sulle forme della cura animarum in epoca altomedioevale: G. Tabacco, Il cristianesimo latino altomedioevale, in Storia del cristianesimo. Il medioevo, a cura di G. Filoramo, D. Menozzi, Roma Bari, Laterza, 1997, p. 5-106.

[35] Cfr. CDP, I, n. 40; Conradi I., Heinrici I. et Ottonis I. diplomata, n. 143; CDP, I, n. 70; cfr. Tilatti, Istituzioni, p. 131-133.

[36] Per una tal sorta di atteggiamenti: B.H. Rosenwein, To Be the Neighbor of Saint Peter. The Social Meaning of Cluny’s Property, 909-1049, Ithaca London, Cornell University Press, 1989, p. 49-77; M.C. Miller, Donors, Their Gifts and Religious Innovation in Medieval Verona, “Speculum”, 66 (1991), p. 27-42, part. p. 29-31.

[37] Cfr. G. Sergi, Lo sviluppo signorile e l’inquadramento feudale, in La storia, II, 2, Il medioevo, Popoli e strutture politiche, dir. da N. Tranfaglia, M. Firpo, Torino, UTET, 1986, p. 369-393; Strutture e trasformazioni della signoria rurale nei secoli X-XIII, a cura di G. Dilcher, C. Violante, Bologna, Il Mulino, 1996. Per il Veneto: A. Castagnetti, La Marca Veronese-Trevigiana, Torino, UTET, 1986, p. 8-21; Id., Il Veneto, p. 205-257.

[38] Le elezioni vescovili, non solo a Padova, fra X e XI secolo erano normalmente espressione della volontà imperiale: cfr. G. Schwartz, Die Besetzung der Bistümer Reichsitaliens unter den sächsischen und salischen Kaisern, Leipzig Berlin, Verlag von B.G. Teubner, 1913 (rist. an., Spoleto, CISAM, 1993); G. Sergi, Vescovi, monasteri, aristocrazia militare, in Storia d’Italia, Annali, IX, La Chiesa e il potere politico, a cura di G. Miccoli, G. Chittolini, Torino, Einaudi, 1986, p. 75-98, part. p. 84-86 (ora in G. Sergi, L’aristocrazia della preghiera. Politica e scelte religiose nel medioevo italiano, Roma, Donzelli, 1994, p. 3-29). Circa la rappresentatività sociale delle compagini canonicali: H. Keller, Origine sociale e formazione del clero cattedrale dei secoli XI e XII nella Germania e nell’Italia settentrionale, in Le istituzioni ecclesiastiche della “Societas Christiana” dei secoli XI-XII. Diocesi, pievi e parrocchie, Atti della sesta Settimana internazionale di studio, Milano, 1-7 settembre 1974, Milano, Vita e Pensiero, 1977, p. 136-186.

[39] CDP, I, n. 106; cfr. Tilatti, Istituzioni, p. 45, 137-138.

[40] CDP, I, n. 141.

[41] Tilatti, Istituzioni, p. 47-56, 140-155.

[42] Cfr. le note di J. Gaudemet, Le gouvernement de l’église à l’époque classique, in Histoire du droit et des institutions de l’église en Occident, dir. G. Le Bras, J. Gaudemet, VIII,2, Paris, Cujas, 1979, p. 193-197.

[43] CDP, I, n. 98. Ma cfr. anche: CDP, I, n. 111 (1026), n. 124 (1032), n. 132 (1035), n. 141 (1041), n. 149 (1047), n. 249 (1085), n. 310 (1092), n. 313 (1095).

[44] G.G. Fissore, Problemi della documentazione vescovile astigiana per i secoli X-XII, “Bollettino storico bibliografico subalpino”, 81 (1973), p. 417-510, part. p. 420-421 nota 8 (ora in La memoria delle chiese. Cancellerie vescovili e culture notarili nell’Italia centro-settentrionale (secoli X-XIII), a cura di P. Cancian, Torino, Scriptorium, 1995, p. 41-94); La Rocca, Pacifico, p. 23 nota 19.

[45] Gaudemet, Le gouvernement, p. 189.

[46] Ciò almeno deriverebbe da una distinzione di Rufino, tuttavia propria del XII secolo: R.L. Benson, The Bishop-Elect. A Study in Medieval Ecclesiastical Office, Princeton, Princeton University Press, 1968, p. 66-67, 71.

[47] Castagnetti, Il Veneto, p. 240-243; Tilatti, Istituzioni, p. 121-140, 152-203.

[48] CDP, I, n. 136.

[49] Cfr. E. Cattaneo, La vita comune dei chierici e la liturgia, in La vita comune del clero, I, p. 241-272, part. p. 245.

[50] È un contratto di donazione: “Actum in claustia de canonica Sancta Maria”: CDP, I, n. 191. Il termine chiostro poteva contrassegnare l’insieme degli edifici canonicali: J.C. Picard, Les origines des quartiers canoniaux, in Les chanoines dans la ville. Recherches sur la topographie des quartiers canoniaux en France, dir. J.C. Picard, Paris, De Boccard, 1994, p. 15-25, part. p. 18.

[51] Cfr. M.C. Miller, The Formation of a Medieval Church. Ecclesiastical Change in Verona, 950-1150, Ithaca London, Cornell University Press, 1993, p. 44, 57-58 (ora in tr. it., Verona, Cierre, 1998) ; La Rocca, Pacifico, p. 83-84.

[52] Su modelli, contenuti, scopi e diffusione della regola di Aquisgrana: Dereine, Chanoines, col. 364-375.

[53] Cfr. M. Maccarrone, I papi del secolo XII e la vita comune e regolare del clero, in La vita comune del clero, I, p. 349-398.

[54] Tilatti, Istituzioni, p. 259-262; G. Zattin, Il monastero di Santa Maria delle Carceri, Padova, Tipografia Antoniana, 1973.

[55] “Si les réformateurs attachent tant d’importance à la pauvreté, c’est à cause de la valeur intrinsèque de cette vertu évangélique, mais aussi parce qu’ils la considèrent comme le fondement et la garantie de la chasteté, de l’obéissance et de la concorde, en un mot, de tout l’idéal canonial”: Dereine, Chanoines, col. 375-379, la cit. col. 378; cfr. G. Miccoli, Introduzione a Id., Chiesa gregoriana, seconda edizione a cura di A. Tilatti, Roma, Herder, 1999 (Ia ed., Firenze, La Nuova Italia, 1966), p. 1-58, part. p. 11-12; Id., Pier Damiani e la vita comune del clero, ibidem, p. 93-126, part. p. 107-126. Per un quadro più generale e articolato problematicamente e geograficamente si vedano inoltre i volumi citati supra, alle note 5 e 14.

[56] I. Daniele, Le due leggende sull’invenzione e traslazione del corpo di san Daniele levita martire padovano, “Atti e memorie dell’Accademia patavina di scienze, lettere ed arti”, n.s., 98 (1984-1985), p. 81-114; Id., Analisi critica delle due leggende sull’invenzione e traslazione del corpo di san Daniele martire di Padova, “Atti e memorie dell’Accademia patavina di scienze, lettere ed arti”, n.s., 100 (1987-1988), p. 25-44; Tilatti, Istituzioni, p. 167-203.

[57] La collocazione del corpo di Daniele avvenne nel contesto della consacrazione della cattedrale: i tre vescovi che la celebrarono in un primo tempo lasciarono il corpo insepolto, “reperto igitur postera cum ceteris die consilio, eum in occidentali ecclesie parte locare, ibi etenim sedulo honoratur officio” (Daniele, Le due leggende, p. 112a). Dall’Ordinario si capisce che il corpo fu deposto nell’altare di San Pietro, che poi assunse il titolo di Daniele: la vigilia di natale, la messa “in aurora” si cantava “ad altare Sancti Petri supra arcam sancti Danielis” (Ordinarium, n. 65j), ma si vedano pure le cerimonie relative alla festa di Daniele (ibidem, n. 76a-76f, 166).

[58] CDP, I, n. 230.

[59] Tilatti, Istituzioni, p. 167-203, 256-301.

[60] Rimando ancora al mio, Istituzioni, p. 241-256, ove si troveranno pure i riferimenti alla bibliografia esistente.

[61] Tilatti, Istituzioni, p. 277-278.

[62] A. Barzon, San Bellino vescovo martire, in Id., Santi padovani, a cura di C. Bellinati, [Padova], Rebellato, 1975 (Ia ed., Padova, Tipografia Antoniana, 1947), p. 233-404; G. Cracco, Bellino, in DBI, VII, Roma, Istituto della Enciclopedia italiana, 1965, p. 741-743; A. Tilatti, San Bellino, Bellino vescovo, la leggenda e la storia, “Quaderni storici”, n.s., 93 (1996), p. 583-605 (ora, riveduto, in Santi e beati della diocesi di Padova, p. 47-65).

[63] Collodo, Una società, p. LII.

[64] Cfr., per altre realtà, Keller, Origine sociale, p. 143-157.

[65] La Rocca, Pacifico, p. 194-197; Miller, The Formation, p. 126-138, 163-174.

[66] Cfr. G. Miccoli, La storia religiosa, in Storia d’Italia, II,1, Dalla caduta dell’Impero romano al secolo XVIII, Torino, Einaudi, 1974, p. 431-1079, part. p. 516-546; O. Capitani, Storia dell’Italia medievale, 410-1216, Roma Bari, Laterza, 1988², p. 356-357.

[67] Per rendersi conto del numero degli interventi pontifici, è sufficiente uno sguardo a IP, VII,1, p. 153-211.

[68] Tilatti, Istituzioni, p. 256-292.

[69] CDP, II,1, n. 212, 498.

[70] Cfr. A. Rigon, Le isitituzioni ecclesiastiche e la vita religiosa, in Monselice, p. 211-235, part. p. 216.

[71] L’eccezione fu notata da A. Rigon, Organizzazione ecclesiastica e cura d’anime nelle Venezie. Ricerche in corso e problemi da risolvere, in Pievi e parrocchie, p. 705-724, part. 708-709 e nota 13 (cfr. R. Brentano, Two Churches. England and Italy in the Thirteenth Century, Berkeley Los Angeles London, University of California Press, 1988², p. 66-68). Per l’organizzazione aquileiese: P. Paschini, I patriarchi d’Aquileia nel secolo XII, “Memorie storiche forogiuliesi”, 10 (1914), p. 1-37, part. p. 2-3; F. De Vitt, Vita della chiesa nel tardo medioevo, in Storia della società friulana. Il medioevo, a cura di P. Cammarosano, Tavagnacco (UD), Casamassima, 1988, p. 159-267, part. p. 165-166, 199.

[72] C. Violante, Sistemi organizzativi della cura d’anime in Italia tra medioevo e rinascimento. Discorso introduttivo, in Pievi e parrocchie, p. 3-41, part. p. 21-30.

[73] Dondi, Dissertazione, VI, n. CLIX p. 183-184 e p. 61-62.

[74] Pievano di Monselice fu, agli inizi del Duecento, il canonico padovano Dainisio Gnanfo; lo fu poi anche il canonico e futuro cardinale Simone Paltanieri (Rigon, Le istituzioni ecclesiastiche, p. 216-217).

[75] CDP, II,2, n. 655 p. 7.

[76] Dondi, Serie, p. 145, 18, 211. Si veda pure A. Rigon, “Si ad scolas iverit”. Un inedito documento del 1196 sul canonico di Padova Tommaso Morosini primo patriarca latino d’Oriente, “Quaderni per la storia dell’Università di Padova”, 33 (2000), p. e infra, in corrispondenza delle note 160-161.

[77] Conciliorum oecumenicorum decreta, cur. J. Alberigo, J.A. Dossetti, P.P. Joannou, C. Leonardi, P. Prodi, cons. H. Jedin, Bologna, Istituto per le scienze religiose, 1973³, rispettivamente can. 18 p. 220, can. 11 p. 240; M. Maccarrone, “Cura animarum” e “parochialis sacerdos” nelle costituzioni del IV concilio lateranense (1215). Applicazioni in Italia nel secolo XIII, in Pievi e parrocchie, I, p. 81-195, part. p. 130-136. Ma scuole si trovavano anche presso altre chiese padovane, come quella di San Lorenzo: Sambin, Note, p. 7-8; si veda inoltre Rigon, Clero e città, p. 100-105.

[78] Cfr. Bortolami, Pieve, p. 21-26, 55-70.

[79] Per alcune di queste famiglie, come i Dalesmanini, i da Vigodarzere, gli Gnanfo-da Vo, i Forzatè, i Gizi, si vedano le referenze in Bortolami, Fra “alte domus”, p. 11-13, 16, 37-38 e note relative; E. Barile, Lettere di Innocenzo IV e di Alessandro IV reperite negli archivi padovani. Illustrazione storica, tesi di laurea, Università degli studi di Padova, Facoltà di Lettere e Filosofia, anno accademico 1969-1970, rel. P. Sambin, p. 25-34; per un confronto con Cremona: Chittolini, I beni terrieri, p. 43-45; e per Lucca Savigni, Episcopato, p. 149-151.

[80] M. Ronzani, Vescovi, capitoli e strategie famigliari nell’Italia comunale, in Storia d’Italia, Annali, IX, p. 101-146. Si veda pure il contermine esempio trevigiano: D. Rando, Le elezioni vescovili nei secoli XII-XIV. Uomini, poteri, procedure, in Ead., Religione e politica nella Marca. Studi su Treviso e il suo territorio nei secoli XI-XV, I*, Società e istituzioni, Verona, Cierre, 1996, p. 177-204 (già in Storia di Treviso, II, Il medioevo, a cura di D. Rando, G.M. Varanini, Venezia, Marsilio, 1991, p. 375-397).

[81] Sul vescovo: G. Zonta, Gerardo Offreducci da Marostica 1165-1213, “Studia sacra”, 2 (1921), p. 106-112; circa le procedure elettorali: Rigon, Le elezioni vescovili, p. 373-385.

[82] Rigon, Le elezioni vescovili, p. 385-401.

[83] Cfr. supra, nota 7.

[84] Cammarosano, Italia medievale, p. 53, 227.

[85] Cfr., ad esempio, il caso di Pernumia: S. Bortolami, Territorio e società in un comune rurale veneto (sec. XI-XIII). Pernumia e i suoi statuti, Venezia, Deputazione editrice, 1978, p. 87.

[86] CDP, II,2, n. 1129.

[87] A. Rigon, I laici nella chiesa padovana del Duecento. Conversi, oblati, penitenti, in Contributi alla storia della chiesa padovana nell’età medioevale, 1, Padova; Istituto per la storia ecclesiastica padovana, 1979, p. 11-81; Id., Penitenti e laici devoti fra mondo monastico-canonicale e ordini mendicanti: qualche esempio in area veneto-mantovana, “Ricerche di storia sociale e religiosa”, n.s., 17-18 (1980), p. 51-73.

[88] CDP, II,2, n. 1266; IP, VII,1, p. 169, n. 9.

[89] Lo fece, nel 1167, Lemizo di Domenico di Aica, davanti al figlio Zambono, arcidiacono della Saccisica: CDP, II,2, n. 912; cfr. S. Bortolami, Famiglia e parentela nei secoli XII e XIII: due esempi di “memoria lunga” dal Veneto, in Viridarium floridum, p. 117-157, part. p. 130-131.

[90] Su questi aspetti della dinamica territoriale: Bortolami, Pieve, p. 1-91.

[91] Bellino nel 1130 (CDP, II,1, n. 212) e Gerardo Offreducci nel 1171 (CDP, II,2, n. 1031) confermarono le spettanze patrimoniali dei canonici.

[92] Dopo il privilegio di Callisto II (1123), occorre richiamare quelli di Alessandro III (1172), di Urbano III (1186) (cfr. IP, VII,1, p. 168-170, n. 3, 9, 14), quest’ultimo confermato da Innocenzo III (1200), Onorio III (1226), Urbano IV (1263) e Pio II (1463).

[93] Ad esempio, quella che oppose la canonica di Santa Maria a Santa Sofia di Padova: Sambin, L’ordinamento, p. 48-51; oppure quella per il bosco di Busiago: Bortolami, Pieve, p. 55-70, con i documenti: p. 71-91.

[94] Si veda ancora la situazione di Pernumia: Bortolami, Territorio, p. 81-98. Circa la prevalente incidenza della decima sul totale delle riscossioni: A. Castagnetti, La pieve rurale nell’Italia padana. Territorio, organizzazione patrimoniali e vicende della pieve veronese di San Pietro di “Tillida” dall’alto medioevo al secolo XIII, Roma, Herder, 1976, p. 134, 153-155; Id., La decima da reddito signorile a privilegio economico dei ceti cittadini. Linee di ricerca, in Pievi e parrocchie, p. 215-233; Id., Le decime e i laici, in Storia d’Italia, Annali, IX, p. 509-530.

[95] Nel febbraio del 1191 Giacomino da Fiume pervenne a un concordato con i canonici, con il quale fu investito a feudo di due campi, come risarcimento perché “suus pater interfectus in canonicorum fuisset servicio”: ACP, Pergamene, 30 (Feuda canonicorum), n. 17.

[96] CDP, II,1, n. 277.

[97] Il primo “administrator et massarius” noto è Bernardo: CDP, II,1, n. 534; cfr. Tilatti, Istituzioni, p. 278-280.

[98] Ciò emerge dalle deposizioni di alcuni canonici, interrogati in proposito, in una causa del 1204-1205: ACP, Pergamene, 14 (Ecclesiarum), n. 22.

[99] ACP, Pergamene, 17 (Canipa, canipeta, sacristia), Sacristia n. 1: prete Enrico “secrestenus”. Nel 1257 si stabilì che il sacrista doveva render conto in capitolo di sei mesi in sei mesi della sua attività, doveva aver cura di ciò che gli era affidato, e soprattutto provvedere all’illuminazione della cattedrale (Dondi, Dissertazione, VII, n. CVIII, p. 117-118). Egli veniva eletto dal capitolo e confermato dal vescovo. Durava in carica a vita (cfr. ACP, Pergamene, 17 [Canipa, canipeta, sacristia], Sacristia n. 6: 1274 gennaio 28, elezione del canonico Bartolomeo de Gizi per la morte del sacrista Guglielmo). Sui doveri del sacrista per quanto riguarda la cattedrale: Ordinarium, n. 208a-208g.

[100] ACP, Pergamene, 9 (Villarum, IX), Scandolato n. 8.

[101] Nel 1205, il canonico Marquardo dichiarò che nei trent’anni di cui aveva memoria il numero dei canonici fu sempre superiore a venti, nel 1192 era di ventitré (ACP, Pergamene, 14 [Ecclesiarum], n. 22; cfr. Rigon, Clero e città, p. 90-91 nota 8; Barile, Lettere, p. 19).

[102] Dondi, Dissertazione, VI, n. CXLVII p. 166-167; IP, VII,1, p. 171 n. 20.

[103] Cfr. E. Lesne, Praebenda, sens primitif du terme prébende, in Mélanges Paul Fournier, Paris, Recueil Sirey, 1929, p. 443-453, part. p. 445; Id., Les origines de la prébende, “Revue historique de droit français et étranger”, 8 (1929), p. 242-290, part. p. 242; Robin, Le problème, p. 316; Pycke, Le chapitre, p. 199.

[104] CDP, II,1, n. 212; CDP, II,2, n. 1031.

[105] Gaudemet, Le gouvernement, p. 191-193; C.D. Fonseca, Vescovi, capitoli cattedrali e canoniche regolari, in Vescovi e diocesi in Italia dal XIV alla metà del XVI secolo, Atti del VII Convegno di storia della chiesa in Italia, Brescia, 21-25 settembre 1987, a cura di G. De Sandre Gasparini, A. Rigon, F. Trolese, G.M. Varanini, Roma, Herder, 1990, p. 83-138, part. p. 86, 100-101; per qualche nota su Padova: C.D. Fonseca, Canoniche regolari, capitoli cattedrali e “cura animarum”, in Pievi e parrocchie, p. 257-278, part. 272-273; Rigon, Organizzazione ecclesiastica, p. 716; a Verona il numero di venti prebende fu fissato nel 1212 (L. Bellotti, Ricerche intorno alle costituzioni del capitolo di Verona nei secoli XIII-XV, in Miscellanea di studi e memorie, VI, Venezia, Deputazione editrice, 1943, p. 25) per la Francia: H. Millet, Les partitions des prébendes au chapitre cathédral de Laon: fonctionnement d’un système égalitaire (XIIIe-XVe siècle), “Bibliothèque de l’École des chartes”, 140 (1982), p. 163-188; Robin, Le probléme, p. 314-316; Pycke, Le chapitre, p. 199-203; una suddivisione delle prebende fu praticata con ritardo ad Anagni (inizi XIV secolo): Montaubin, Entre gloire curiale, p. 364-367.

[106] Sulla collazione dei benefici nel Trecento: G. Mollat, La collation des bénéfices ecclésiastiques sous les papes d’Avignon (1305-1378), Paris, E. De Boccard, 1921. Ma si vedano gli studi di G. Chittolini, Note sui benefici rurali nell’Italia padana alla fine del medioevo, in Pievi e parrocchie, p. 415-468; Id., Stati regionali e istituzioni ecclesiastiche nell’Italia centrosettentrionale del Quattrocento, in Storia d’Italia, Annali, IX, p. 149-193; per Padova, supra, nota 10.

[107] Fonseca, Vescovi, p. 86.

[108] ACP, Pergamene, 15 (Canonicorum, I), n. 27. Che l’accordo risalisse però presumibilmente a un decennio prima risulta dalla deposizione di un teste in una causa decimale del 1204: cfr. M. Roberti, Nuove ricerche sopra l’antica costituzione del comune di Padova, “Nuovo archivio veneto”, n.s., 3 (1902), p. 77-97, part. p. 96-97. La divisione in quartieri della città assunse un valore civile che perdurò oltre il medioevo: Bortolami, Fra “alte domus”, p. 32 nota 115.

[109] Il 17 gennaio 1215 maestro Egidio “tunc sui quarterii massarius” procedette a tale formalità: ACP, Pergamene, 9 (Villarum, IX), Sarmeola n. 1. Altri documenti simili redatti nel maggio dello stesso anno in ACP, Pergamene, 15 (Canonicorum, I), n. 55. Alla stipula di tali atti presenziavano i canonici appartenenti a ciascun quartiere.

[110] Il 6 dicembre 1213 il canonico Albrico “suam prebendam voluit reddi canonice Padue secundum quod eam habuit pro rata temporis ad voluntatem canonicorum Padue” (ACP, Tomus niger, f. 44r); sembra confermata dunque l’esistenza di prebende individuali e credo pure l’equivalenza con il beneficium, nonostante le riserve sulla loro diversa natura giuridica (Lesne, Les origines, p. 281-287), che però non precludeva fenomeni, pur impropri, di assimilazione.

[111] ACP, Pergamene, 14 (Ecclesiarum), n. 22.

[112] Dondi, Dissertazione, VII, n. XL p. 48-49. L’edizione del Dondi è parziale, si veda il testo in ACP, Tomus niger, f. 89r-91r.

[113] ACP, Pergamene, 15 (Canonicorum, I), n. 73; Ordinarium, n. 207l; cfr. Barile, Lettere, p. 8-20, documenti n. 2, 3, 4, p. 3-14; Rigon, Organizzazione ecclesiastica, p. 716.

[114] Cfr. infra, in corrispondenza della nota 158.

[115] Si tratta di tre lettere date a Rieti il 9, 11 e 18 settembre 1226, registrate in ACP, Tomus niger, f. 31v-32v.

[116] ACP, Pergamene, 8 (Villarum, VIII), Polverara n. 66.

[117] Cfr. supra, nota 101.

[118] Fonseca, Vescovi, p. 100-101.

[119] Rigon, Le elezioni vescovili, p. 385-393.

[120] Cfr. infra, in corrispondenza della nota 148.

[121] Barile, Lettere, p. 19-20.

[122] ACP, Tomus niger, f. 41v.

[123] Ordinarium, n. 207l, corsivo mio. Anche in altre rubriche mansionari e custodi sono equiparati ai canonici: per le esequie (207g) e per la suddivisione delle oblazioni (207j-207k).

[124] Cfr., da ultimo, Montaubin, Entre gloire curiale, p. 331-332; a Verona quattro mansionarie furono ricavate da una prebenda canonicale nel 1225: Bellotti, Ricerche, p. 25

[125] Tale era stato prete Grimaldo di San Martino di Padova che, nel 1239, ricordava avvenimenti del 1165, quando “erat scolaris in maiori ecclesia et serviebat Paduanis canonicis” (Rigon, Le elezioni vescovili, p. 373); tale il Simeone nominato nel testamento di Albrico nel 1213 (ACP, Tomus niger, f. 44v); tale Corradino che, nel 1228, “moratur ad ecclesiam maiorem” (ACP, Pergamene, 14 [Ecclesiarum], n. 40), tale Giacomo nello stesso anno (ibidem, n. 44).

[126] Nel 1189 è menzionato “presbiter Benedictus ecclesie maioris Sancte Marie” (Dondi, Dissertazione, VI, n. CXXVII p. 136-137), ma già in precedenza, fra i testimoni di alcuni documenti, compaiono preti, che forse appartenevano alla cattedrale, come Domenico, Apollo e Aitingo, il 30 dicembre 1152 (CDP, II,1, n. 578), oppure Palio, Aliotto e Giovanni, il 27 agosto 1183 (Dondi, Dissertazione, VI, n. CXI p. 120), i cui nomi seguono immediatamente quelli dei canonici. Nel giungo del 1215 compare ancora un Guglielmo “clericus maioris ecclesie” (ACP, Pergamene, 31 [Diversa, I], n. 71).

[127] Il Guglielmo “Paduane ecclesie [o “maioris ecclesie”] custos” che compare nel testamento di maestro Cerruto nel 1210 (ACP, Pergamene, 18 [Testamenta, I], n. 9; cfr. ACP, Tomus niger, f. 44r) e in un documento del 1211 (ACP, Pergamene, 15 [Canonicorum, I], n. 49) è probabilmente lo stesso chierico citato alla nota precedente, segno forse di un’oscillazione terminologica che tradiva la recente costituzione dei custodi. Essi (Ugo, Mainerio, Viviano e Guglielmo) del resto furono presenti nei momenti dell’elezione episcopale del 1213-1214 (Dondi, Dissertazione, VI, n. CLXXXII p. 209-210). Nel 1226 i custodi sono ancora quattro: Fino, Ugo, Guglielmo e Danio (ACP, Pergamene, 15 [Canonicorum, I], n. 73).

[128] Dondi, Dissertazione, VII, n. XII p. 15-16.

[129] Dondi, Dissertazione, VII, n. XIV p. 17-18; n. XXI p. 24. Sull’episodio cfr. Fonseca, Canoniche regolari, p. 272 e nota 40.

[130] Registri dei cardinali Ugolino d’Ostia e Ottaviano degli Ubaldini, a cura di G. Levi, Roma, ISIME, 1890, n. LXXXVII p. 112.

[131] Si vedano gli obblighi che gli derivavano: Ordinarium, n. 2a-2k.

[132] Ordinarium, 41a: qui si specifica che, nelle solennità il vescovo scende nella chiesa “cum capellanis et clericis suis”; allo stesso modo si precisa che egli, quando celebra nella chiesa maggiore, debba avere “propria vestimenta et propria paramenta” (ibidem, n. 40e).

[133] La cappella di San Marco: Ordinarium, n. 156.

[134] Cfr. Rigon, Clero e città, p. 33-35.

[135] Ordinarium, n. 126b, 102a.

[136] Quanto alla distinzione fra chierici e laici: Ordinarium, n. 19g, 39a. La differenziazione in età incideva sui compensi che il canipario distribuiva a Natale, Pasqua e il giorno dopo Ognissanti: ibidem, n. 211b.

[137] Cfr. Ordinarium, n. 2-15.

[138] “Layci non debent se immiscere cum clericis ad divina[…] Sciendum est quod layci non debent stare vel sedere in choro clericorum ad divinum officium sed debent stare inferius in corpore ecclesie, idest in sancta sanctorum” (Ordinarium, n. 212). Su questi aspetti si veda Tilatti, Donne e uomini, p. 89-90, a cui rimando pure per ogni accenno ai laici; in generale: Tabacco, Il cristianesimo latino, p. 20-21.

[139] Cfr. Ordinarium, n. 207n-207r.

[140] I punti da ricordare sarebbero numerosi, mi pare però significativo questo: “Sciendum est quod in Nativitate Domini et in Pascate consuevit et debet episcopus quamplures de scolaribus ecclesie secum mensam vocare, incipiendo in prandio vigilie usque ad prandium tercii diei post festum. Simili modo debet quilibet canonicorum ad minus duos de scolaribus secum ad suam mensam vocare” (Ordinarium, n. 207m). L’importanza di questa ritualità conviviale nella determinazione di solidarietà e gerarchie si può cogliere con dovizia di particolari nella chiesa bergamasca, grazie ad alcune testimonianze del 1187 relative a una lunga causa per la matricità tra le canoniche di San Vincenzo e di Sant’Alessandro: G. Valsecchi, “Interrogatus… respondit”. Storia di un processo del XII secolo, “Bergomum. Bollettino della Civica Biblioteca Angelo Mai di Bergamo”, 84 (1989)3, p. 111-115 (in volume autonomo: Bergamo, Biblioteca civica “Angelo Mai”, 1989).

[141] Ordinarium, n. 61a, 63h, 68a, 69a-69c, 70, 71. Cfr. M. Roberti, La cerimonia dell’episcopello a Padova, “Archivio storico italiano”, Va s., 31 (1903), p. 3-8; A. Benvenuti Papi, Il culto degli Innocenti nell’immaginario medievale, in Infanzie. Funzioni di un gruppo liminale dal mondo classico all’età moderna, a cura di O. Niccoli, Firenze, Ponte alle Grazie, 1993, p. 113-143; M. Grinberg, L’episcopus puerorum, ibidem, p. 144-158.

[142] Quanto ai giuspatronati laicali (specialmente per l’età moderna, ma con riferimenti alla disciplina bassomedioevale): G. Greco, I giuspatronati laicali nell’età moderna, in Storia d’Italia, Annali, IX, p. 531-572, part. p. 538-545; sul proliferare dal Trecento in poi degli altari minori: E. Cattaneo, Lo spazio ecclesiale: pratica liturgica, in Pievi e parrocchie, p. 469-492, part. p. 472-473, 484-485; per alcuni esempi più tardi e comparazioni: A.I. Pini, Tra orgoglio civico e “status symbol”: corporazioni d’arte e famiglie aristocratiche in San Petronio nel XIV e XV secolo, in Id., Città, chiesa e culti civici in Bologna medievale, Bologna, Clueb, 1999, p. 281-304 (già in Una basilica per una città. Sei secoli in San Petronio, Atti del Convegno di studi per il sesto centenario di fondazione della basilica di San Petronio (1390-1990), a cura di M. Fanti, D. Lenzi, Bologna, Fabriceria di San Petronio Istituto per la Chiesa di Bologna, 1994, p. 87-100); E. Hubert, Election de sépulture et fondation de chapelle funéraire à Rome au XIVe siècle: donation et concession de l’espace sacré, in La parrocchia nel medio evo. Economia, scambi, solidarietà, a cura di A. Paravicini Bagliani, V. Pasche, Roma, Herder, 1995, p. 209-227; E. Curzel, Cappellani e altari nella cattedrale di Trento nel XIV secolo, “Quaderni di storia religiosa”, 4 (1997) (= Preti nel medioevo), p. 125-155.

[143] Ugo, diacono e custode della cattedrale, il 12 giugno 1265 lasciò alcuni redditi per il proprio anniversario con il patto “quod presbyter Petrus nepos meus donec vixerit faciat et procuret quod ex predicto redditu celebrentur et fiant singulis annis anniversalia mea et post autem mortem ipsius presbiteri Petri hoc faciat et procuret ille de custodibus maioris ecclesie qui prior et antiquior erit inter alios custodes” (ACP, Pergamene, 18 [Testamenta, I], n. 19).

[144] Il testamento è tràdito in copia del 1305 (ACP, Pergamene, 18 [Testamenta, I], n. 27) ed è edito, con la sua conferma del 17 giugno 1283, da Dondi, Dissertazione, VII, n. CLII p. 178-180.

[145] Dopo la morte di Giunta il diritto di presentatio, di institutio e di eventuale destitutio del prete sarebbe passato al capitolo (ACP, Pergamene, 20 [Mansionarii, custodes, capellani], Capellani n. 1).

[146] Il canonico Marquardo dice che erano “maiores X annis et etiam XI”, Danio afferma che avevano meno di venticinque anni. La presenza di canonici giovani era consueta, giacché alla domanda se i “canonicelli” erano chiamati ai capitoli, il vecchio prete Bianco disse: “Non vocabantur omnibus capitulis, sed si fiunt capitula de factis magnis eos vocantur”: ACP, Pergamene, 14 (Ecclesiarum), n. 22. Il documento è stato utilizzato anche da Marangon, La “Quadriga”, p. 10 nota 45 (e prima da M. Roberti, Diritto romano e coltura giuridica in Padova sulla fine del secolo XII, “Nuovo archivio veneto”, n.s., 4 (1902), p. 162-201, part. p. 183-184). Sui da Vigodarzere e sugli Gnanfo da Vo: Bortolami, Fra “alte domus”, p. 11-12 nota 29, p. 13 nota 33, p. 38 nota 147 e p. 63-64.

[147] I canonici Ubertino, Enrico Baratti e il fratello Guido erano del casato degli Offreducci (Dondi, Serie, p. 139; Bortolami, “Honor civitatis”, p. 236-237).

[148] Sono estratti delle deposizioni del 1205, nella causa, più volte citata, fra canonica e Santa Sofia per le decime del borgo omonimo: ACP, Pergamene, 14 (Ecclesiarum), n. 22.

[149] CDP, II,2, n. 1313: Zambonino cappellano del vescovo e canonico (1178 dicembre 23).

[150] CDP, II,2, n. 1419 (1181 giugno 17) Todeschino è cappellano del vescovo (c’è pure un “magister Episcopellus capellanus Sancti Martini”); successivamente lo si ritrova come canonico (Dondi, Dissertazione, VI, n. CXXII p. 132-133).

[151] Cfr. Dondi, Dissertazione, VI, n. CXXXIV p. 144-145 (1190 luglio 23): Viviano è cappellano, mentre è canonico nel 1194: Dondi, Dissertazione, VI, n. CXLII p. 156. Viviano rogò il proprio testamento nel 1212: Marangon, La “Quadriga”, p. 8-9.

[152] Nel 1199 e nel 1200 ricordato come prete e cappellano (ACP, Pergamene, 24 [Episcopi, I], n. 77; ibidem, 14 [Ecclesiarum], n. 14), nel gennaio del 1201 e oltre come canonico (ibidem, 15 [Canonicorum, I], n. 25).

[153] Dondi, Serie, p. Nel giugno del 1191 Floriano era cappellano (Dondi, Dissertazione, VI, n. CXXXI p. 147), nel novembre del 1193 canonico (Dondi, Dissertazione, VI, n. CXLI p. 152-153).

[154] Cfr. per Acerbo ACP, Pergamene, 28 (Feuda episcopi, I), n. 73 (1217); ibidem, 25 (Episcopi, II), n. 148 (1218); ibidem, 20 (Mansionarii, custodes, capellani), n. 1 (1219) e così avanti fino al 1228 (ibidem, 14 [Ecclesiarum], n. 44), di Acerbo si deve segnalare pure un nipote: Guarino: ibidem, 25 (Episcopi, II), n. 203 (1226); ibidem, 28 (Feuda episcopi, I), n. 103 (1226); per Alberto: ibidem, 28 (Feuda episcopi, I), n. 67 e 73 (1217); ibidem, 25 (Episcopi, II), n. 148 (1218).

[155] Cfr. Arimondo, cappellano del vescovo nel 1216 (ACP, Pergamene, 28 [Feuda episcopi, I], n. 67), appare con la qualifica arcidiaconale nel 1226: ibidem, 25 (Episcopi, II), n. 203, 206, 211, 212, 219. È presumibilmente lo stesso “Raimundus clericus de Sorbaria […] nepos domini Iordani Dei gratia Paduani episcopi” che compare nel 1218 (ibidem, 28 [Feuda episcopi, I], n. 80).

[156] Rispettivamente: ACP, Pergamene, 25 (Episcopi, II), n. 204, 206, 211, 212 (1226), sono dubbioso se siano omonimi o la medesima persona il Giordanino nepos episcopi attestato nel 1226 come laicus (ibidem, 28 [Feuda episcopi, I]n. 103 [1226]) e il Giordanino nipote del vescovo e clericus (ibidem, 28 [Feuda episcopi, I], n. 104 [1227]); per Uguccione: ibidem, 25 (Episcopi, II), n. 153 (1218), n. 164 (1219), n. 204, 206 (1226), n. 219 (1228); ibidem, 28 (Feuda episcopi, I), n. 80 (1218), n. 84 (1219), n. 98 (1224), n. 103 (1226), n. 104 (1227); ibidem, 14 (Ecclesiarum), n. 37 (1227); per Giovanni: ibidem, 25 (Episcopi, II), n. 204, 205, 210, 212 (1226); ibidem, 28 (Feuda episcopi, I), n. 103 (1226), n. 104 (1227), in queste due ultime pergamene detto camerarius.

[157] Rolandini Patavini Cronica in factis et circa facta Marchie Trivixane, a cura di A. Bonardi in Rerum Italicarum scriptores, VIII,1, Città di Castello, Lapi, 1905-1908, p. 79; Bortolami, “Honor civitatis”, p. 237 nota 218.

[158] Dondi, Dissertazione, VII, n. XVIII p. 21.

[159] Marangon, La “Quadriga”, p. 12.

[160] Marangon, Alle origini, p. 34, 44; Id., La “Quadriga”, p. 8, 12-14.

[161] Cfr. nota precedente, e anche S. Bortolami, Da Bologna a Padova, da Padova a Vercelli: ripensando alle migrazioni universitarie, in L’Università di Vercelli nel medio evo, Atti del II Congresso storico vercellese, Vercelli, 23-25 ottobre 1992, Vercelli, Società storica vercellese, 1994, p. 35-75, part. p. 40-41.

[162] Si vedano in proposito le parole del canonico Bianco, riportate supra, alla nota 146.

[163] Cfr., rispettivamente: Dondi, Dissertazione, VI, n. CLXXXII p. 209; Dondi, Dissertazione, VII, n. XII p. 15, n. XVII p. 21, n. XL p. 48; n. LXV p. 73-74 (si noti che in quest’ultimo documento viene menzionato il refettorio canonicale, indice di una vita comune forse non completamente spenta).

[164] Cfr. supra, nota 129.

[165] Gli statuti non possono essere anteriori al 1238, poiché promossi dall’arciprete Diolacorra (cfr. infra, nota 196), sono verosimilmente successivi al 3 aprile 1239, giorno della morte di Giacomo di Corrado, perché non sono confermati dal vescovo, e sono anteriori al settembre 1239, giacché fra i presenti c’è Pigolo, messo poi a morte da Ezzelino (cfr. infra, nota 195). Sono inediti: ACP, Pergamene, 16 (Canonicorum, II), n. 172 (trascritti da Barile, Lettere, n. 4 p. 11-14; con osservazioni di Rigon, Organizzazione ecclesiastica, p. 716) e corrispondono al giuramento di cui alla nota seguente.

[166] ACP, Pergamene, 20 (Mansionarii, custodes, capellani), Mansionarii n. 2. La pergamena riguarda il giuramento dei mansionari, segno supplementare della loro assimilazione ai canonici.

[167] A. Gloria, Statuti del comune di Padova dal secolo XII all’anno 1285, Padova, Tipografia S. Sacchetto, 1873, n. 598.

[168] Marangon, La “Quadriga”, p. 11, 36.

[169] Bortolami, Fra “alte domus”, p. 3-74; Id., “Honor civitatis”, p. 161-239.

[170] Sull’eremitismo: A. Rigon, Ricerche sull’eremitismo padovano durante il XIII secolo, in Esperienze religiose e opere assistenziali nei secoli XII e XIII, a cura di G.G. Merlo, Torino, Il Segnalibro, 1988, p. 123-161 (già in “Annali della Facoltà di lettere e filosofia dell’Università di Padova”, 4 [1979], p. 217-253); e sull’immagine di Crescenzio di San Luca, prete organizzatore del movimento religioso femminile: Rigon, Clero e città, p. 94, 117-122.

[171] Cfr. A. Rigon, La santa nobile. Beatrice d’Este (†1226) e il suo primo biografo, in Viridarium floridum, p. 61-87; G. Folena, Beata Beatrix, in Storia e cultura a Padova, p. 381-404; anche Santa Giustina seppe produrre un santo: S. Collodo, Arnaldo da Limena abate di Santa Giustina. Storia di una tradizione agiografica, in Ead., Una società, p. 3-34 (già in “Il Santo”, II s., 19 [1979], p. 573-592); A. Rigon, Un abate e il suo monastero nell’età di Ezzelino da Romano: Arnaldo da Limena (†1255) e Santa Giustina di Padova, in San Benedetto e otto secoli (XII-XIX) di vita monastica nel Padovano, Padova, Antenore, 1980, p. 55-86. Sulla fioritura benedettina a Padova e nel Padovano: G. Carraro, I monasteri benedettini in diocesi di Padova, “Benedictina”, 35 (1988), p. 87-152.

[172] A. Rigon, Ricerche sull’“Ordo sancti Benedicti de Padua” nel XIII secolo, “Rivista di storia della chiesa in Italia”, 29 (1975), p. 511-535; Id., Monasteri doppi e problemi di vita religiosa femminile a Padova nel Due e Trecento, “Quaderni di storia religiosa”, 1 (1994) (= Uomini e donne in comunità), p. 221-253.

[173] Cfr. L. Pellegrini, Modalità insediative e organizzazione del Francescani in territorio veneto nel secolo XIII, in Storia e cultura a Padova, p. 153-189; A. Rigon, Francescanesimo e società a Padova nel Duecento, in Minoritismo e centri veneti nel Duecento, a cura di G. Cracco, Trento, Civis, 1983 (= “Civis”, 19-20), p. 8-40; per i Predicatori cfr. C. Gasparotto, Il convento e la chiesa di Sant’Agostino dei Domenicani di Padova, Firenze, Memorie Domenicane, 1967. Sottolinea il nesso organico, soprattutto per i Predicatori, fra le fondazioni e le sedi universitarie e culturali: G.G. Merlo, Gli inizi dell’ordine dei frati Predicatori, “Rivista di storia e letteratura religiosa”, 31 (1995), p. 415-441, ma si vedano ora anche gli articoli in “Quaderni di storia religiosa”, 3 (1996) (= I frati Predicatori nel Duecento).

[174] La bibliografia su Antonio è sterminata; mi limito qui a ricordare l’edizione delle fonti curata da Vergilio Gamboso, ormai giunta al quinto volume, e alcuni atti di convegni dai contenuti più propriamente storici: Sant’Antonio di Padova fra storia e pietà, Atti del primo Colloquio interdisciplinare su “il fenomeno antoniano”, Padova, 10-12 giugno 1976, “Il Santo”, IIa s., 16 (1976); I volti antichi e attuali del Santo di Padova, Atti del secondo Colloquio interdisciplinare, Padova, 9-11 aprile 1979, “Il Santo”, IIa s., 19 (1979); “Vite” e vita di Antonio di Padova, Atti del Convegno internazionale sulla agiografia antoniana, Padova, 29 maggio - 1 giugno 1995, a cura di L. Bertazzo, Padova, Centro studi antoniani, 1997. Cfr. anche L. Bertazzo, L’ottavo centenario della nascita di sant’Antonio di Padova (1195-1995). Cronaca e documentazione, Padova, Centro studi antoniani, 1996.

[175] Cfr. A. Rigon, Chiesa e vita religiosa a Padova nel Duecento, in Sant’Antonio 1231-1981. Il suo tempo, il suo culto, la sua città, Padova, Signum, 1981, p. 284-307; Id., Vescovi e ordini religiosi a Padova nel primo Duecento, in Storia e cultura a Padova, p. 131-151, part. p. 136-141; Id., Religione e politica al tempo dei da Romano. Giordano Forzatè e la tradizione agiografica antiezzeliniana, in Nuovi studi ezzeliniani, p. 389-414.

[176] Cfr. supra, nota 16.

[177] Ordinarium, nota 534.

[178] Ordinarium, n. 1.

[179] F.S. Dondi Dall’Orologio, Dissertazione sopra li riti, discipline e costumanze della chiesa di Padova fino al secolo XIV, Padova, Tipografia del Seminario, 1816, p. 3.

[180] B. Pagnin, Le origini della scrittura gotica padovana, Padova 1933, p. 56-60.

[181] Gasparotto, Padova ecclesiastica, p. 22-26.

[182] Si veda, in proposito, la scheda sul codice dell’Ordinarium redatta da A. Vildera, in Parole dipinte. La miniatura a Padova dal medioevo al Settecento, catalogo a cura di G. Baldissin Molli, G. Mariani Canova, F. Toniolo, Modena, Franco Cosimo Panini, 1999, n. 13 p. 75-76; per qualche notazione sul santorale padovano cfr. la scheda (n. 10) su un breviario di Santa Giustina, ora custodito a Zagabria, di F.G.B. Trolese, ibidem, p. 65-66.

[183] Ordinarium, n. 174.

[184] Dondi, Dissertazione, VII, n. LXXXI p. 90. Detto per inciso, il 16 dicembre 1233 era il venerdì (feria sexta) delle quattro tempora invernali; l’Ordinario stesso poneva tra i doveri del vescovo la convocazione della sinodo diocesana nel mercoledì (feria quarta) delle quattro tempora, senza però specificare di quale stagione (Ordinarium, n. 2g). Si trattava di una consuetudine preesistente?

[185] La prima sinodo castellana di cui si conservino gli statuti è più tarda: P. Sambin, Uno dei più antichi sinodi della diocesi veneziana (1288), in Id., Studi di storia ecclesiastica, p. 65-74, part. p. 65, 69.

[186] Il Pino era stato suddiacono pontificio, canonico di San Marco, arcidiacono di Castello, prima di divenirne vescovo. Fu accusato, nel 1228, dal rappresentante dell’abate di Santa Giustina e dei cappellani di Padova di essere compromesso con la canonica, in particolare con i magistri Patavino, Egidio e Salione: Rigon, Le elezioni vescovili, p. 398-399.

[187] Martimort, Les “ordines”, p. 68.

[188] Conciliorum oecumenicorum decreta, can. 6 p. 236-237; cfr. supra, nota 131.

[189] Su questi aspetti rimando al mio Sinodi diocesane e concili provinciali in Italia nord-orietale fra Due e Trecento. Qualche riflessione, “Mélanges de l’École française de Rome. Moyen Age”, 112 (2000), p.

[190] A partire dal secolo XII si parla di “essor liturgique”: Martimort, Les “ordines”, p. 78-79.

[191] Sugli anni 1237-1243: Bortolami, “Honor civitatis”, p. 179-202.

[192] Cfr. A. Rigon, Religione e politica al tempo dei da Romano: Giordano Forzaté e la tradizione agiografica antiezzeliniana, in Nuovi studi ezzeliniani, p. 389-414; L. Gaffuri, Forzaté Giordano, in DBI, XLIX, Roma, Istituto della Enciclopedia italiana, 1997, p. 267-270, con bibliografia; Collodo, Arnaldo da Limena, p. 3-34; Rigon, Un abate e il suo monastero, p. 55-86.

[193] Rigon, Le elezioni vescovili, p. 401-404.

[194] L.A. Botteghi, Ezzelino e l’elezione del vescovo in Padova nel secolo XIII, “Atti e memorie della r. Accademia di scienze, lettere ed arti in Padova”, n.s., 20 (1903-1904), p. 269-286, part. doc. IV p. 280.

[195] Rolandini Patavini Cronica, p. 69; Rigon, Chiesa e vita religiosa, p. 293-294; Bortolami, “Honor civitatis”, p. 196.

[196] Rigon, Ricerche, p. 529 nota 127. Si noti che Diolacorra divenne arciprete nel 1238, alla morte di Egidio, e in precedenza non aveva fatto parte della canonica; il Dondi (Serie, p. 70) lo ritiene nativo di Trissino. In ogni modo è degno di nota come, a solo un anno dalla conquista ezzeliniana di Padova, si ponga al vertice della canonica un estraneo, che poi si mostrerà vicino al legato papale Gregorio da Montelongo.

[197] Botteghi, Ezzelino e l’elezione, doc. I p. 278.

[198] Registro degli atti e delle lettere di Gregorio de Monte Longo (1233-1269), a cura di G. Marchetti Longhi, Roma, Staderini, 1965, n. 51, 58, 63, 64. Il 6 luglio 1243 Gregorio lo incaricò di provvedere alla nomina del vescovo di Piacenza. Mi domando se sia ancora lui l’omonimo vicario del vescovo veronese, attivo fra il 1262 e il 1265: G.M. Varanini, La chiesa veronese nella prima età scaligera. Bonincontro arciprete del capitolo (1273-1295) e vescovo (1296-1298), Padova, Dipartimento di Storia, 1988, p. 22 e nota 35.

[199] Bortolami, “Honor civitatis”, p. 237 nota 218. Enrico fu catturato nel 1251: Rolandini Patavini Cronica, p. 98.

[200] Colpito nel 1254 dalle purghe ezzeliniane: Rolandini Patavini Cronica, p. 107. Un altro canonico, anonimo, fuggì da Padova con i figli di Macaruffo: Rolandini Patavini Cronica, p. 109 (Bortolami, “Honor civitatis”, p. 234).

[201] Cfr. Bortolami, Fra “alte domus”, p. 64-67; Id., “Honor civitatis”, p. 237 e nota 219.

[202] Cfr. Rigon, Le elezioni vescovili, p. 407-408; Id., Chiesa e vita religiosa, p. 293-296; L. Pamato, Forzatè Giovanni Battista, in DBI, XLIX, Roma, Istituto della Enciclopedia italiana, 1997, p. 270-271, con bibliografia.

[203] Il 1° novembre 1256 Giovanni convocò la curia dei vassalli per procedere a una ricognizione dei feudi (ACP, Pergamene, 26 [Episcopi, III], n. 280; ibidem, 28 [Feuda episcoporum, I], n. 114) e il 23 dello stesso mese nominò un ufficiale per riscuotere la muta e il ripatico della riva di Santa Croce (ACP, Pergamene, 26 [Episcopi, III], n. 281).

[204] Rigon, Francescanesimo e società, p. 38-39.

[205] L.A. Botteghi, Clero e comune a Padova nel secolon XIII, “Nuovo archivio veneto”, n.s., 9 (1905), p. 215-272; Rigon, Clero e città, p. 122-123.

[206] ACP, Pergamene, 17 (Canipa, canipeta, sacristia), Sacristia n. 4, cfr. supra, nota 99.

[207] ACP, Pergamene, 17 (Canipa, canipeta, sacristia), Canipa n. 1.

[208] ACP, Tomus niger, f. 35v.

[209] ACP, Pergamene, 31 (Diversa, I), n. 133.

[210] Rigon, Clero e città, p. 64.

[211] Cfr. Ordinarium, n. 2c, 2e, 2i, 2k, 40a, 41a, 117, 127t...

[212] Ordinarium, n. 3b, 3c, 3k, 111.

[213] Ordinarium, n. 10d.

[214] Si veda, nell’edizione dell’Ordinarium (in corso di stampa), il contributo di Anna Vildera.


Sigle

ACP

Archivio capitolare di Padova

CDP

A. Gloria, Codice diplomatico padovano, I; II,1; II,2, Venezia, Deputazione editrice, 1877-1881

DBI

Dizionario biografico degli Italiani

IP

Italia pontificia sive repertorium privilegiorum et litterarum a Romanis pontificibus ante annum MCLXXXXVIII Italiae ecclesiis monasteriis civitatibus singulisque personibus concessorum, congessit P.F. Kehr, VII,1: Provincia Aquileiensis, Berolini, apud Weidmannos, 1923 (rist. an., 1961)


Il presente saggio sarà stampato in Il “Liber ordinarius” della chiesa padovana. Padova, Biblioteca Capitolare, ms. E 57, sec. XIII, a cura di G. Cattin, A. Vildera, Padova, Istituto per la storia ecclesiastica padovana (“Fonti e ricerche di storia ecclesiastica padovana”, XXVIII)