Reti Medievali Rivista, III - 2002 / 2 - luglio-dicembre

Le Scuole di specializzazione per l'insegnamento secondario (SSIS) e la didattica della storia

Giovanni Vitolo

Una laurea specialistica che valorizzi l'esperienza delle SSIS

©  Giovanni Vitolo per "Reti Medievali"


Nel momento in cui questo dossier viene predisposto per la pubblicazione non è ancora chiaro - e probabilmente non lo sarà neanche al momento della pubblicazione - come sarà organizzata la formazione dei futuri docenti di scuola e quindi anche di quelli che dovranno insegnare storia. L’unica cosa che si delinea con sufficiente chiarezza è la soppressione delle SSIS, sulla cui sorte ha pesato in senso fortemente negativo il fatto che siano partite quando non era stato ancora deciso quale rapporto avrebbero avuto con le lauree di primo livello e con quelle specialistiche: ritardo che si è cercato di recuperare successivamente con soluzioni pasticciate, che hanno contribuito sia a screditare ulteriormente le SSIS sia a far crescere il già alto tasso  di sfiducia nella bontà della riforma universitaria nel suo complesso, e di quella delle facoltà umanistiche in particolare.

Sull’argomento sono già tornato più volte in sedi diverse e con  proposte che hanno suscitato un certo interesse, anche se ora rischiano di essere piegate a orientamenti nei confronti dei quali il mio dissenso è netto. È in corso, infatti, un vero e proprio braccio di ferro all’interno del gruppo dei consulenti del ministro Moratti tra chi vorrebbe, una volta soppresse le SSIS, creare un’apposita laurea specialistica a carattere psico-didattico-pedagogico, gestita dalle attuali Facoltà di Scienze della formazione, e chi vorrebbe destinare nell’ambito di alcune lauree specialistiche il 40% dei  crediti alla formazione psico-didattico-pedagogica, con l’aggiunta di un anno di tirocinio post-laurea.

Il buon senso porterebbe decisamente verso una soluzione di questo secondo tipo, ma al momento sembra prevalere la lobby dei pedagogisti, che è trasversale agli schieramenti politici e che guarda decisamente al modello americano della scuola come luogo di socializzazione e centro di intrattenimento, magari anche come palestra per la formazione di futuri campioni olimpionici: scuola gestita da insegnanti ai quali si chiede di essere esperti non tanto delle discipline da insegnare quanto piuttosto di psicologia e pedagogia, in modo da potersi prendere cura dei ragazzi loro affidati.

Indipendentemente però dall’esito di questo confronto tra disciplinaristi e pedagogisti, e dalla sorte finale delle SSIS, due cose mi sembrano chiare e quindi da sottolineare con forza. Innanzitutto l’insegnamento nelle SSIS ha costretto non pochi docenti universitari a confrontarsi con i problemi della didattica delle loro discipline nell’ambito della scuola, ponendo così le premesse per un superamento della distanza sempre maggiore che si è venuta formando negli ultimi decenni tra scuola e università, e che ha arrecato danno all’una e all’altra. Nello stesso tempo la figura del docente-tutor ha consentito la valorizzazione di un patrimonio di competenze e anche di forti idealità, che il mondo della scuola finora non aveva utilizzato appieno, ma che anzi, sotto la spinta dei settori più retrivi del sindacato, aveva mirato piuttosto a mortificare, in nome di un egualitarismo di carriera e di retribuzione che non poteva non tradursi in un incentivo al disimpegno.

Non a caso un buon numero di docenti-tutor sono in possesso del titolo di dottore di ricerca o comunque di titoli scientifici, acquisiti prima e dopo l’inizio della loro attività di docenti e che consentono loro di impartire un insegnamento di livello più elevato sul piano dei contenuti disciplinari, e non solo di essi. Non di rado, infatti, a giudicare almeno dalla mia esperienza diretta, al Nord, al Centro e al Sud della penisola, questi docenti uniscono all’attività scientifica una non meno meritoria attività di sperimentazione didattica e di approfondimento teorico dei problemi ad essa connessi, che li rende i migliori conoscitori del mondo della scuola, e quindi molto più competenti di tanti sedicenti esperti, che forse con i problemi della scuola si confrontano da lontano, dalle cattedre universitarie o dalle segreterie di partiti e sindacati.

Orbene, le SSIS sono state l’occasione e il terreno d’incontro tra docenti universitari sensibili ai problemi della didattica e docenti di scuola che credono nel loro lavoro e nella funzione culturale e sociale della scuola: incontro che ovviamente non ha portato dappertutto agli stessi risultati, anzi in qualche caso non ha portato ad alcun risultato. Si tratta però nel complesso di un patrimonio di esperienze che non va dissipato, ma che anzi va valorizzato sia per quanto ha già prodotto sia come punto di partenza per ulteriori acquisizioni. Valorizzarlo significa, in primo luogo, produrre materiali e sussidi didattici che consentano una larga circolazione di quanto si è fatto di buono in quelle sedi nelle quali, grazie anche e soprattutto ad un rapporto tra scuola e università già sperimentato nel passato, è stato possibile organizzare l’attività delle SSIS in maniera meno improvvisata. In secondo luogo significa utilizzare anche nelle lauree specialistiche, quale che sia la loro configurazione definitiva, i docenti-tutor, affidando loro, attraverso i contratti, moduli di laboratorio didattico e, perché no?, anche il tutorato di laureandi con tesi di laurea a forte contenuto didattico, quali dovrebbero essere quelle di coloro che mirano all’insegnamento.

Per l’uno e per l’altro obiettivo il gruppo di docenti universitari che ha promosso l’incontro di Milano dell’8 giugno 2001 si sente pienamente impegnato a tutti i livelli, da quello del dibattito politico-culturale a quello delle decisioni che dovranno essere prese nelle singole sedi universitarie.