Reti Medievali Rivista, III - 2002 / 2 - luglio-dicembre

Le Scuole di specializzazione per l'insegnamento secondario (SSIS) e la didattica della storia

Francesco Senatore

La formazione degli insegnanti di storia.
Difficoltà e ambiguità nel rapporto tra università e scuola

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©  Francesco Senatore per "Reti Medievali"


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Premessa

Quando, per la formazione e l'aggiornamento, studiosi di storia e insegnanti di storia si incontrano, la comunicazione è spesso esposta a fraintendimenti reciproci. Tale condizione è, del resto, molto frequente nel rapporto tra ricerca e insegnamento. Essa si realizza anche nelle Scuole di specializzazione per gli insegnanti secondari (SSIS), di istituzione tanto recente quanto, forse, effimera.

I docenti di storia delle SSIS, specie quelli che svolgono attività didattica "frontale", e che provengono di norma dal mondo universitario, dovendo decidere quale storia insegnare agli specializzandi, si sono scontrati con un secondo interrogativo, per molti di loro inedito: Quale storia bisogna insegnare nelle scuole secondarie? Le due domande, ovvie ma necessarie, ripropongono vecchi problemi: quali devono essere gli obiettivi e i contenuti dell'insegnamento della storia nelle scuole secondarie e, quali conseguentemente, gli obiettivi e i contenuti della formazione degli insegnanti di storia; come, in sostanza, deve articolarsi il rapporto tra ricerca storica e insegnamento scolastico della storia.

Questo intervento, originato dall'incontro sulle SSIS alla Cattolica di Milano nel giugno 2001, propone qualche risposta concreta, a tratti empirica, a docenti e a discenti, ai formatori e a coloro che devono essere formati all'insegnamento della storia. Entrambi, nelle SSIS o altrove, sperimentano un disagio acuto, un senso di frustrazione che, purtroppo, si configura in Italia come una condizione strutturale dei corsi di formazione e di aggiornamento per insegnanti.

Chi scrive non è, accademicamente parlando, un esperto di didattica della storia: ha in compenso vissuto intensamente l'esperienza di insegnante di italiano e storia in Istituti professionali e tecnici per cinque anni, ed è ora ricercatore di Storia medievale. Gli sia perdonata una certa perentorietà nell'argomentare, dovuta alla passione per l'insegnamento, non alla presunzione di essere nel giusto.

 

1. Quale storia bisogna insegnare nelle scuole secondarie?

Vorrei partire da una domanda assolutamente banale: quella, celebre, che dà l'avvio al Mestiere dello storico di Marc Bloch: a che serve la storia? La domanda circola nelle aule delle nostre scuole. Essa riceve le più accattivanti risposte nelle introduzioni dei libri di testo scolastici, ossequiosi interpreti delle direttive ministeriali, le quali appunto prevedono che, propedeuticamente, l'insegnante convinca i suoi alunni dell'utilità della storia.

A che serve la storia? A questa domanda ho dovuto rispondere da insegnante di scuola, da docente di corsi di aggiornamento e - recentemente - della SICSI, la Scuola campana di specializzazione all'insegnamento. L'insegnante, che è il mediatore tra la storia-scienza e la storia-disciplina, se non dovrebbe avere dubbi (direi ex officio, in quanto laureato in Lettere, Storia o Filosofia) sull'utilità della storia-scienza, sperimenta ogni giorno, ogni ora, l'inutilità, il fallimento della storia-disciplina, una delle materie meno amate dagli studenti. Sperimenta insomma il fallimento della sua mediazione.

D'altra parte, il fatto stesso che quella domanda trovi spazio nei programmi del Ministero è segnale di una crisi di legittimità della disciplina, grave quasi quanto quella della Francia dopo la sconfitta del '40 (quando Bloch formulò la domanda), perché la crisi mina il fondamento della nostra tradizione culturale: la convinzione che lo studio delle humanae litterae sia di per sé formativo. A che serve studiare la storia, la letteratura, il latino... Un tempo non c'era bisogno neppure di rispondere, né da parte degli insegnanti, perché pochi alunni osavano chiederlo, né tanto meno da parte di una istituzione, il Ministero della (Pubblica) Istruzione, fondata sul presupposto, altrettanto indiscusso, che assicurare a tutti i cittadini (o, inizialmente, alla loro melior pars) una formazione scolastica e culturale fosse segno di progresso e civiltà. La crisi della disciplina si accompagna alla più generale crisi del principio di autorità: anche per questo è necessario convincere gli studenti dell'utilità di quello che studiano.

Il fatto poi che la domanda debba, per norma dettata dall'alto, ricevere una risposta prima che l'insegnante cominci a parlare di una qualche storia, e che la scontata risposta preconfezionata possa all'istante trasformare gli alunni in appassionati indagatori del passato, è segnale di come sia incongruo e lontano dalla realtà l'interventismo didattico del Ministero, che potrebbe limitarsi ad indicare il programma di studio, invece di programmare ogni aspetto dell'azione didattica, con diktat tanto ingenui quanto pericolosi. Ogni docente sa infatti che l'alunno si motiva con e nella disciplina stessa, e non imponendo un atto di fede esterno allo studio.

In ambito scolastico, la domanda di Bloch implica una precisazione ulteriore: quale storia serve, e dunque quale storia-disciplina bisogna insegnare?

Già molto prima della riforma Berlinguer dei programmi di storia (1997), quella che ha dato più spazio allo studio del Novecento, la storia-disciplina aveva subito un grande, contraddittorio processo di trasformazione. La progressiva specializzazione degli studi, la nascita di nuove tematizzazioni, l'esplosione, in una parola, della storiografia tardonovecentesca, avevano già provocato la crescita abnorme dei programmi ministeriali e dei libri di testo di storia. Negli uni e negli altri la disciplina si è gonfiata fino all'inverosimile e, senza rinunce alle tradizionali scansioni politico-istituzionali, ha accolto nel suo seno, sull'abbrivo delle feroci critiche al manuale degli anni '70, la storia economica e sociale, l'antropologia, la sociologia, la cultura materiale, la storia della mentalità e dell'immaginario, la microstoria, la storia di genere, persino la storia della storiografia, nella forma di antologie storiografiche.

Lo storico, in poche parole, risponde alla domanda Quale storia serve, quale storia bisogna insegnare? enfatizzando il proprio, ridotto, ambito di interesse, oppure ampliando il quadro storiografico, insistendo sulla varietà delle prospettive, che sono così precipitate tutte nei manuali, sempre più voluminosi, sempre più ricchi di approfondimenti, schede, immagini, cd-rom di sussidio, e quant'altro. Quelli che potremmo definire, per comodità, i "disciplinaristi", sembrano insomma rispondere che molte, tutte le storie servono.

Tramontato definitivamente il primato della storia politica, invecchiata precocemente l'impostazione economicistico-marxiana, proposta da alcuni manuali di successo, non è ancora emerso un nuovo canone per l'insegnamento scolastico della storia. La riforma Berlinguer, rompendo la corrispondenza tra i cinque anni delle Scuole Superiori e le periodizzazioni tradizionali (storia greca, romana, medievale, moderna, contemporanea) ha reso ancora più necessaria una riflessione al riguardo, anche da parte dell'Accademia. Da allora, i manuali si sono sforzati di sintetizzare ancora di più, nell'illusione che sia comunque possibile far entrare tutto quello che è necessario in meno pagine e in meno ore di lezione. Le stesse difficoltà si presentano ora nel triennio della nuova università, specie per la storia antica e medievale, che le matricole conoscono molto male proprio a seguito della riforma dei programmi scolastici.

Dall'altro versante, i pedagogisti danno una risposta differente a quella domanda. L'enfasi si sposta dalla disciplina, con il suo complesso statuto epistemologico, le sue stratificazioni diacroniche, le sue articolazioni interne, all'alunno, al contesto e al processo di apprendimento. Centralità dell'alunno nel processo di insegnamento/apprendimento (così il gergo della didattica) significa che i docenti devono creare le condizioni che permettano al discente di scoprire da solo la disciplina, costruendo liberamente - e perciò attivamente - i percorsi di conoscenza a lui più consoni. L'insegnante non è il custode di una scienza che va inculcata nelle giovani e inesperte menti dei suoi allievi, ma è un tutore, un compagno che guida alla scoperta del reale (e dell'immaginario), secondo una visione di lontana origine roussoviana. Prioritarie non sono mai le conoscenze in sé, ma le competenze e le capacità - concetti, gli ultimi due, tra loro parzialmente sovrapponibili. Conoscenze, competenze, capacità, costituiscono, come noto, la magica triade del nuovo Esame di Stato, volto ad accertare negli alunni il possesso delle tre c - si dice con una facile battuta. Non il sapere, ma il saper fare è l'obiettivo da raggiungere nell'insegnamento secondo la scuola militante dei nostri anni. Nello specifico dell'insegnamento della storia, il saper fare diventa anche il saper fare storiografico, e l'alunno viene così accompagnato alla scoperta delle fonti, del territorio, della memoria orale, spinto a costruire i suoi materiali storici in esaltanti ricerche di gruppo, laboratori di storia.

Ne consegue che la storia, strutturatasi in un certo modo nel corso del tempo, viene radicalmente ripensata come disciplina scolastica. Quale storia insegnare diventa secondario: le varie e molteplici conoscenze storiche in tanto servono alla crescita personale e culturale del bambino e dell'adolescente, in quanto utilizzate flessibilmente, cioè in quanto sono liberamente scomposte e manipolate nel contesto didattico, a seconda di più alte finalità di formazione. Compito dell'insegnante di storia, di qualsiasi insegnante, è in primo luogo individuare le finalità formative e gli obiettivi didattici più adeguati per i suoi alunni, selezionando poi i contenuti che, strumentalmente, siano funzionali al perseguimento di quelle finalità e di quegli obiettivi.

La flessibilità didattica, ovvero l'adeguamento ai condizionamenti del contesto e al livello degli alunni si ottiene con un insegnamento modulare. Come i moduli di una cucina o di una libreria vengono liberamente assemblati a seconda dello spazio disponibile e dei gusti del cliente, così i moduli didattici non seguono più una successione logica e cronologica, un programma preordinato, rispettoso della tradizione scientifica e scolastica, ma, in quanto autonomi e standardizzati, sono intercambiabili, a seconda delle esigenze dell'alunno, della classe, del corso di laurea, insomma della singola programmazione.

 

2. Contenuti o obiettivi?

Da un parte ci sono dunque i "disciplinaristi", che insistono sui contenuti, e intendono che i contenuti, cioè le conoscenze così come strutturate dalla tradizione degli studi, siano gli unici obiettivi da raggiungere nell'insegnamento della storia. Dall'altra parte ci sono i "pedagogisti" e gli esperti di didattica, che denunciano come errore marchiano la confusione tra obiettivi e contenuti (è una delle prime cose che si imparano quando si studia programmazione didattica). Un obiettivo - insistono - non è “conoscere criticamente” questo o quel periodo storico, questo o quell'argomento, ma, ad esempio, saper “distinguere i molteplici aspetti di un evento e l'incidenza in esso dei diversi soggetti storici (individui, gruppi sociali, ecc.)” oppure saper “ricostruire le connessioni sincroniche e gli sviluppi diacronici riferiti ad un determinato problema storico studiato” (così due dei sei “obiettivi di apprendimento” della storia nel biennio degli Istituti tecnici industriali, G.U. n. 100 del 2/5/94). Al di là degli obiettivi, intesi come abilità, operazioni che si sanno fare, ci sono poi le finalità, intese come più generali capacità critiche: “l'insegnamento della storia è finalizzato a promuovere e sviluppare la capacità di recuperare la memoria del passato in quanto tale, la capacità di orientarsi nella complessità del presente ... la capacità di razionalizzare il senso del tempo e dello spazio” (ivi, tre delle sette finalità). Prescindiamo qui da ulteriori discussioni sulla differenza tra obiettivi e finalità nella teoria della didattica.

La priorità di obiettivi intesi come competenze e di finalità intese come capacità finisce però per degradare i contenuti a meri strumenti. Con un ulteriore spostamento logico, poi, i metodi con cui si raggiungono quegli obiettivi e quelle finalità diventano la vera priorità, e su di essi si concentra tutto lo sforzo della didattica della storia: ci riferiamo al lavoro di gruppo, all'intervista, alla ricerca sul campo, al laboratorio insomma, tutto ciò che non sia l'aborrita lezione frontale. Allora, non è importante neppure più la finalità (del resto, in quei termini, inattingibile per un alunno delle nostre scuole), ma piuttosto il percorso che si compie per raggiungerla. La conquista autonoma della conoscenza, lo sviluppo personale delle competenze e delle capacità attraverso errori, fraintendimenti, giochi, "pensieri divergenti", grazie all'amorevole sostegno del docente, è l'esperienza formativa per eccellenza, l'esaltante Bildung del discente.

L'insegnante, stretto tra contenuti e obiettivi, tra storia-scienza e pedagogia, constata però che entrambe le prospettive sono estranee alla quotidianità del suo operare didattico, fatta di due ovvi, concretissimi condizionamenti, noti in linea di principio a storici e pedagogisti: i suoi alunni, quegli alunni; il tempo a disposizione, quelle due ore a settimana. Troppo spesso gli alunni mancano dei più elementari "prerequisiti". Troppo spesso è necessario, prima di ogni cosa, un loro disciplinamento relazionale e, direi, mentale (nel senso di una minima organizzazione dello studio: i quaderni, l'assegno). Infine, il tempo: non più di 60/70 ore effettive di storia in ciascun anno scolastico, verifiche comprese (nel mio ultimo anno di scuola, per la cronaca, le ore sono state appena 49).

Può succedere che, sotto la pressione di quella grande congerie di fatti e questioni imposti dai programmi ministeriali e dai libri di testo (oltre che dalla propria formazione), l'insegnante faccia, ogni anno, una corsa pazza, sempre destinata all'incompletezza, lungo molti argomenti, dei quali i suoi alunni, nel migliore dei casi, ritengono appena, e per poco, una tenue infarinatura. Può succedere che, solleticato da quelle finalità e da quei metodi innovativi illustrati nei medesimi programmi e nei medesimi libri di testo, l'insegnante si lanci in esperimenti di laboratorio. Ma, in questo caso, il taglio al programma è ancora più doloroso, perché, quando questi esperimenti riescono (non è affatto impossibile), con soddisfazione di tutti, mostre didattiche, drammatizzazioni, produzione di pagine web e quant'altro, essi occupano tutto l'anno scolastico o una sua gran parte.

 

3. I programmi di storia negli Istituti professionali

Alla domanda Quale storia serve? il Ministero ha risposto dunque subendo le influenze di "disciplinaristi" e "pedagogisti": le virgolette stanno appunto ad identificare le due posizioni sopra presentate, con una semplificazione che intende evidenziare le differenze tra i due punti di vista, la cui integrazione nella prassi didattica è scaricata sull'insegnante, che non sa quali contenuti scegliere e come raggiungere i traguardi didattici che gli sono indicati. Ma c'è di più: lo stesso Ministero, con un'incongrua applicazione dei principi della programmazione e dell'autonomia, se da un lato legifera minuziosamente su finalità, obiettivi, metodi, contenuti, tempi, verifiche, con ecumenismo storiografico e pedagogico, dall'altro chiede ai Collegi docenti, ai singoli gruppi di insegnanti di storia (i cosiddetti "dipartimenti") che da soli, dal basso, selezionino i contenuti individuando "i nuclei fondanti", i "saperi minimi" della storia insegnata in questo o quell'Istituto, in questo o in quell'anno scolastico, in relazione cioè con il contesto ambientale specifico, con conseguente registrazione nel POF (Piano dell'offerta formativa). Lo stesso, con inquietante "salita" verso l'alto di un certo gergo didattico, va ora verificandosi nell'università riformata.

È nei Professionali che la dicotomia tra "disciplinaristi" e "pedagogisti", si è definitivamente risolta. Ne è derivata la fine della storia come disciplina fondata sulla diacronia, almeno per quanto riguarda la storia antica, medievale e moderna. L'applicazione in questi istituti della riforma dei programmi del 1997 ha portato infatti alla seguente scansione: studio della storia contemporanea negli anni II-III (dalle Rivoluzioni di fine Settecento ai giorni nostri) e di nuovo, ma per moduli, nel V anno; studio di tutto il resto nel I anno e di nuovo, sempre per moduli, nel IV anno (DM 31/1/97 n. 31, pubblicato sulla G.U. 36 del 13/2/1997).

Nel primo anno, dopo aver motivato gli studenti con l'“avvio allo studio della storia” e l'“avvio allo studio delle radici remote del mondo attuale” (abbiamo già criticato indicazioni di questo genere), si passa all'argomento “Popolamento della terra, ambienti, cultura materiale” che corrisponde ad una lettura della storia mondiale in termini di migrazioni (dal “periodo dell'ominazione e dell'occupazione di nicchie ecologiche differenti” al “periodo delle esplorazioni geografiche della prima età moderna”). È poi previsto lo studio delle “formazioni economiche e sociali”, delle “organizzazioni politiche e giuridiche”, delle “visioni del mondo” comparando in successione Antichità, Medioevo, Età moderna. Come si vede, tutto il periodo indicato come "preindustriale" è affrontato globalmente, con approccio trasversale e comparativo, secondo una prospettiva ora economico-sociale, ora istituzionale, ora religiosa. A partire dalla seconda metà del '700, con la rivoluzione industriale e le rivoluzioni americana e francese, l'approccio diacronico è recuperato negli anni II e III.

Fermiamoci sulle finalità e sugli obiettivi previsti per il triennio di qualifica: è evidente che essi dovrebbero essere ben pochi (come avviene nei programmi per l'istruzione tecnica sopra citati), in buona parte condivisi con altre materie, proprio perché metadisciplinari. Al contrario, la ricaduta dell'impostazione pedagogista è in questo caso tanto ridicola da essere indecente. Il programma di storia per il triennio sciorina 16 “finalità” corrispondenti a capacità cognitive, formative, orientative (sic!): dal “riconoscere la struttura del fatto storiografico” all'assai improbabile “scoprire e comprendere il rapporto tra la dimensione storica del presente e le plausibili previsioni di tendenze future”. Seguono 52 (dico cinquantadue) obiettivi di apprendimento, dei quali citeremo soltanto quello di “produrre un breve testo storiografico con le informazioni prodotte”! Come possono, dei quindicenni, studiare il contenuto “signoria fondiaria e signoria di banno” e, al tempo stesso, raggiungere l'obiettivo di “dare organizzazione temporale alle informazioni e alle conoscenze in modo da costruire intrecci narrativi sensati” nell'ambito di una comparazione che spazia dalla Preistoria a tutta l'età moderna?

Il rapporto con il mondo del lavoro, vecchio problema della scuola italiana, è risolto prevedendo che nel biennio post-qualifica, dove si insegna storia per moduli, si presti particolare attenzione alla storia settoriale, con riferimento alla tipologia dell'Istituto. La parola settoriale non significa altro che corrispondente a uno dei “tre grandi settori "agricoltura, artigianato e industria, servizi"” della formazione professionale (ma non sono quattro?). Ad ognuno degli ulteriori indirizzi in cui si articolano i settori “può corrispondere una storia settoriale: dalla storia dell'agricoltura, alla storia dell'abbigliamento e della moda, dalla storia dell'industria alla storia del commercio, o dell'alimentazione, o dell'editoria e della grafica, ecc.”. Dei cinque moduli per ciascuno dei due anni (IV anno: “ambito della storia antica, della storia medievale e della storia moderna”; V anno: “temi ... attinenti ai secoli XVIII-XX”), uno può/deve essere dedicato alla storia settoriale, uno alla storia locale, uno all'uso delle fonti, uno alla lettura di un testo storiografico.

Come si vede, i criticatissimi programmi di storia proposti nella passata legislatura (Commissione di studio per il programma di riordino dei cicli di istruzione - L. n. 30 del 10/02/2000 - Gruppo di lavoro Aggregazione disciplinare storico-geografico-sociale, coordinatori: D. Antiseri, L. Cajani, G. Mori, G. Timpanaro; moderatore: C. Croce, Roma, 7/2/2001) sono una realtà nei Professionali, dove la disciplina sta vivendo la sua definitiva crisi, con grande frustrazione dei docenti, che non condividono spesso questa impostazione e che, tra l'altro, hanno ben poca competenza per un insegnamento di questo tipo. In effetti, molti non applicano affatto le direttive ministeriali, giudicando uno studio di questo genere più difficile, per gli alunni, di uno studio di tipo "tradizionale".

Nella proposta Antiseri et alii, l'insegnamento della storia non era più improntato al principio della triplice reiterazione dell'intero ciclo cronologico, con differente grado di approfondimento, dall'Antichità all'età contemporanea, nelle scuole elementari, medie e superiori, ma era articolato in due cicli (triennio+biennio, anche se la scansione delle altre discipline è 2+1+2), cui corrispondevano tre differenti approcci: 1. età "preindustriale", affrontata secondo un'impostazione che si potrebbe definire genericamente sociologica e antropologica; 2. età contemporanea, studiata "tradizionalmente", 3. studio per moduli, destinato agli ultimi anni del corso di studi. Il principale problema che è stato al centro del dibattito su questa  proposta nel corso del 2001 (problema che si ripresenterà anche nell'ambito della riforma Moratti), e cioè la necessità di assicurare lo studio di tutta la storia agli studenti che avrebbero frequentato solo il primo ciclo, condiziona da anni l'insegnamento della storia nei Professionali, dove chi lascia la scuola dopo la qualifica studia nel triennio sia l'età "preindustriale" che quella contemporanea. Con quali risultati, è inutile dirlo.

Stemperare la storia-disciplina nella categoria delle scienze sociali e adottare in via esclusiva l'insegnamento modulare non assicura affatto risultati apprezzabili sul piano didattico, come ben sanno gli insegnanti dei Professionali e come sostiene chi critica il travaso automatico nelle nostre scuole di certe affermazioni della psicologia cognitivistica e delle esperienze scolastiche statunitensi. Ciononostante, da molti anni tale impostazione, venuta allo scoperto in alcuni casi,  gode di grande credito in ambito pedagogico e in ambienti scolastici e ministeriali italiani.

Se però si ritiene che la storia sia una disciplina fondata sulla diacronia, sullo studio della mutevole e complessa interazione dell'individuo e della struttura (sociale, economica, istituzionale, culturale) nel tempo e nello spazio, non si può accettare un insegnamento per moduli scelti con suggestiva variatio di prospettive e contenuti. L'esemplificazione tipologica (un modulo di storia locale, uno di storia "settoriale", uno di uso delle fonti, uno di lettura del testo storiografico) non basta a chi ritiene che ogni società abbia avuto una sua irripetibile individualità, per conoscere la quale è necessario un minimo di approfondimento.

La conoscenza della lingua, sia come abilità attiva e passiva nello scritto e nell'orale, sia come riflessione metalinguistica, può essere incrementata con successo mediante un insegnamento il più modulare possibile, con libero utilizzo di testi letterari o di qualsiasi altro genere, senza seguire percorsi graduati e precostituiti, come si faceva secondo la grammatica normativa classica. Ma questo è possibile perché dietro un insegnamento del genere ci sono una disciplina, la linguistica, e una tecnica, la glottodidattica, che sono basate sulla sincronia e sul concetto della lingua come sistema (come ha insegnato De Saussure). Non è però possibile estendere questo approccio allo studio della letteratura, salvo a concepirlo anch'esso come studio di strutture, e non come storia della letteratura. Anche in questo campo, la didattica militante degli ultimi anni, cui è arriso un successo travolgente nella formulazione delle prove agli ultimi concorsi a cattedra e corsi abilitanti, sostiene uno studio della letteratura come mera analisi del testo. Si riduce così una disciplina alla dimensione di una sua singola, pur legittima, tecnica di analisi. Allo stesso modo, all'ampio spettro delle opzioni storiografiche, metodologiche e didattiche si sostituisce una sola possibilità, una didattica della storia che, maturata su certi argomenti e in certi ambienti, diventa l'unica storia possibile.

Insegnare flessibilmente, per moduli, in tempi ristretti, con contenuti scelti strumentalmente in base alle finalità e agli obiettivi individuati significa insegnare discipline che sono qualcosa di diverso da quello che tradizionalmente si è studiato (e si studia ancora) nelle nostre università. Una certa storia, una certa letteratura. Se questo si deve fare, lo si affermi senza infingimenti e lo si faccia con piena consapevolezza.

 

4. Le aspettative dell'insegnante-discente

La riforma dei programmi del 1997, con lo spazio maggiore dedicato al Novecento, i programmi dei Professionali (nell'ambito del cosiddetto "progetto '92", cui sarebbe da accostare l'analogo "progetto IGEA" dei Tecnici), le proposte dei nuovi cicli intendono risolvere difficoltà reali dell'insegnamento della storia, perseguendo: l'incremento dell'interesse degli alunni mediante lo studio della contemporaneità; la riduzione dei contenuti mediante l'invenzione di una omogenea "età preindustriale", cui corrisponde un approccio sociologico e antropologico; la flessibilità  e l'approfondimento monografico mediante lo studio per moduli negli ultimi anni. Il tutto andrebbe a beneficio di una qualità altissima dell'apprendimento, per la formazione di un cittadino maturo, consapevole di sé e del mondo che lo circonda, non custode meccanico di nozioni, sempre imperfette e insufficienti.

Anche se la riforma Berlinguer-De Mauro pare definitivamente accantonata, la crisi dell'insegnamento della storia resta, e non solo perché molti sono i sostenitori di una certa didattica della storia e dell'insegnamento modulare, ma perché resta difficile conciliare gli obiettivi didattici e i contenuti disciplinari con quei due condizionamenti: il tempo a disposizione, il livello degli alunni.

L'insegnante o l'aspirante tale chiede a chi deve formarlo chiarezza su ciò che deve insegnare, e soluzioni pratiche per quei problemi di tempo e di alunni. Si tratta di una aspettativa strettamente, accanitamente utilitaristica: l'insegnante-discente vorrebbe studiare soltanto ciò che gli è utile in classe, immediatamente.

Allo storico chiede come può semplificare, quali argomenti sono irrinunciabili, ma si rifiuta di affrontare fino in fondo, se non occasionalmente, la complessità del fatto storico e storiografico, perché non riconosce spendibilità didattica a questo sforzo. Al pedagogista chiede ricette efficaci per motivare degli alunni, ma, per la sua formazione, da un lato non vuole e non sa essere psicologo, pedagogista, docimologo, persino animatore; dall'altro non vuole e non sa rinunciare alla tradizionale scansione dei contenuti, pur banalizzati dalla pratica scolastica, e quindi contesta l'insegnamento per moduli, oppure lo depotenzia interpretando i moduli come "parti del programma".

La reazione dell'insegnante-discente a quanto gli viene proposto da "disciplinaristi" e da "pedagogisti" oscilla così tra due possibilità. Se egli riconosce ciò di cui gli si parla (si tratti di questioni storiche o pedagogiche o, più modestamente, di tecniche didattiche), lamenta l'inutilità della proposta ricevuta: già sapeva, già conosceva la sua disciplina (del resto la insegna da tanti anni), già faceva quelle cose con i suoi alunni. Se invece l'insegnante-discente si trova a contatto con la novità (storiografica, pedagogica, didattica), cade, pur dopo occasionale entusiasmo, nella rassegnazione: come si insegnano cose così complesse ad alunni di quel livello, come si fa un'attività così innovativa con dei piccoli teppisti o con ragazzi apatici, del tutto disinteressati alla disciplina?

Una classe di insegnanti o di aspiranti tali (non la classe, ma proprio un gruppo-classe di insegnanti) è insomma tra le classi più difficili da motivare. L'aggiornamento, la formazione, la SSIS non servono a nulla: è l'eterno ritornello. Gli studenti delle SSIS, in particolare, da un lato contestano la necessità di ristudiare materie che hanno già affrontato all'università e che hanno dimostrato di conoscere, almeno formalmente, superando le prove d'accesso alla Scuola; dall'altro trovano avvilente imparare alla bell'e meglio qualche nozione di pedagogia, di psicologia dell'età evolutiva, di teoria della didattica, di storia della scuola (questo si studia nella cosiddetta area comune). Di fronte al perenne conflitto fra teoria e prassi, cadono nel più vieto luogo comune: non è possibile insegnare ad insegnare: basta la conoscenza della materia (nell'occasione data per scontata), o - più semplicemente - basta l'esperienza accompagnata dalla passione.

Tutto nasce, del resto, da un preconcetto assai diffuso: che basti insegnare per essere un insegnante, anzi per maturare un legittimo diritto ad essere assunto dallo Stato come tale, e che non sia invece indispensabile dimostrare di conoscere la propria disciplina. Anche gli specializzandi, che spesso già sono supplenti in scuole pubbliche e private, hanno questo atteggiamento, tipico del precario, rafforzato dal fatto che, a differenza di  quest'ultimo, hanno superato una selezione e hanno pagato una tassa di iscrizione (cui corrisponde, peraltro, un congruo bonus di ben 30 punti aggiuntivi nelle graduatorie permanenti, con danno e beffa per chi ha superato l'ultimo concorso ordinario).

Siamo di fronte ad un fenomeno curioso: la Scuola per insegnanti, per contrappasso preventivo, è figura delle scuola secondaria in cui andranno ad insegnare gli specializzandi. A scuola gli alunni rifiutano la storia (oltre che molte altre materie), la giudicano noiosa, inutile, perché tale è se confrontata alla loro travolgente e vacua quotidianità. I loro insegnanti fanno la stessa cosa: la storia (oltre che la pedagogia e altro) appare loro lontana dalla realtà - sconfortante - delle classi in cui lavorano o lavoreranno, non serve a niente. Nel migliore dei casi, dicono, vengono loro riproposti dei corsi universitari: già sentito, già fatto.

Stressati da un'organizzazione confusa ed inefficiente (basti ricordare che l'anno accademico 2000-01 è cominciato a fine aprile 2001, l'a.a. 2001-02 a metà gennaio 2002 per il primo ciclo che deve terminare a maggio, a metà aprile per il secondo ciclo!), gli studenti della SICSI campana hanno formulato con particolare irritazione la domanda che un giorno, da insegnanti, si sentiranno ripetere: A che serve la storia, questa storia che stiamo studiando?

 

5. A che serve studiare la storia?

A niente, la storia non serve a niente: così ho risposto agli studenti di scuola e della SICSI. Non serve la storia-disciplina scolastica per diventare un buon meccanico o un buon ragioniere o un buon medico, come argomentano gli stessi alunni. Non serve la storia-scienza per insegnare poche banalità agli alunni o per tenerli a bada durante le ore di lezione, basta quello che c'è nei manuali, basta quello che già si sa, come argomentano gli insegnanti più sfiduciati.

Ma rispetto a questo livello zero di utilità (o inutilità), ce n'è un altro, da tutti riconosciuto. È utile studiare la storia, si dice tradizionalmente, perché essa è magistra vitae, perché essa forma nel cittadino il rispetto e l'amore per la sua patria, o perché essa aiuta a conoscere se stessi, attraverso le proprie radici, la propria "cultura di appartenenza". È utile studiare un certo tipo di storia, propongono altri, per conoscere gli errori nostri e della civiltà a cui apparteniamo, per combattere il nefando eurocentrismo che si annida in ogni occidentale. In tutti i casi, alla definizione dell'utilità si accompagna una determinata prospettiva interpretativa: ieri la nazione (per alcuni), il conflitto di classe (per altri), oggi la civiltà nata dall'incontro latino-germanico (per alcuni), i pericoli dell'intolleranza, del capitalismo selvaggio, della globalizzazione (per altri). L'utilità diventa ideologia o, peggio, difesa di corporazioni accademiche e culturali.

In Italia, la didattica della storia, specie quella che insiste sulla modalità del laboratorio storico, si è legata prevalentemente ad ambienti con un determinato orientamento politico: per questo condizionamento genetico ha privilegiato determinati periodi (la storia della Resistenza, la storia contemporanea), determinate specializzazioni (la storia locale, la storia delle donne) e metodologie (la storia orale, la microstoria). Nel suo "libero" processo di apprendimento, l'alunno viene così guidato verso una storia - diciamo così - "alternativa", ovvero accompagnata dalla costante contestazione di ogni prospettiva frettolosamente identificata come tradizionale, conservativa, reazionaria. I programmi di storia previsti dal progetto Berlinguer-De Mauro denunciavano fin troppo chiaramente questa impostazione, per lo spazio dato ad argomenti come l'ominazione, a tutte le civiltà extraeuropee, e per la drastica riduzione del tempo a disposizione per La civiltà greca, La civiltà romana, L'Europa medievale, cui sarebbero state destinate più o meno 23 ore di lezione nel sesto anno del primo ciclo!

Scegliere di insegnare una storia "altra" rispetto alla tradizione è legittimo, intendiamoci, ma trasformare proposte didattiche del genere in normativa ministeriale ne annulla e vanifica la carica di novità e di sperimentazione, per definizione tale se spontanea. L'esperienza maturata in certi contesti (gli Istituti per la storia della Resistenza, alcuni IRRSAE - ora divenuti IRRE -, la Direzione generale dell'Istruzione professionale) non è estendibile tout court, senza ulteriori riflessioni storiografiche e didattiche, a tutto  l'insegnamento della storia.

Alla fine degli anni '70, Mario Del Treppo ha scritto pagine illuminanti contro ogni visione utilitaristica della storia, della storia-scienza come della storia-disciplina, in nome dell'alto valore pedagogico dello studio della storia, di qualsiasi storia, purché fatto con onestà scientifica e didattica. La storia come libertà, insomma, secondo la felice definizione della libertà della memoria. La storia utile perché inutile, perché soddisfa - semplicemente - l'umana curiosità, l'umanistica sete di conoscenza.

Di primo acchito, tutti sono d'accordo su questo terzo livello di utilità (o inutilità) della storia, sul suo valore per la formazione generale dell'individuo. Cosa sono, infatti, quegli obiettivi e quelle alte finalità auspicate nelle minuziose direttive ministeriali e nelle proposte dei riformatori se non una variazione sul medesimo tema: l'insegnamento della storia come educazione alla complessità del reale, come sviluppo di capacità critiche per la lettura del presente e del passato? Per far questo, sarebbe effettivamente necessario sviluppare nell'alunno, mediante un laboratorio storico, una serie di capacità direttamente connesse con il fare ed il raccontare storiografico: la comprensione del nesso di causa/effetto e della variabile spazio/tempo, la comparazione, la raccolta e organizzazione dei dati, la critica della testimonianza. Queste sono le vere finalità dell'insegnamento della storia, questi gli obiettivi, questi i metodi più efficaci. Dall'altra parte, un ammasso di nozioni o di storielle bell'e composte, dove tutto si tiene, artificiosamente. Ancora una volta: obiettivi, non contenuti. Capacità e competenze, non conoscenze.

Purtroppo, concordare sul valore formativo della storia e convincerne studenti e insegnanti non risolve il problema della selezione dei contenuti. Un nuovo canone resta necessario, dato l'imprescindibile condizionamento costituito dal tempo e dagli alunni.

 

6. Le scelte politiche

Un primo punto da affrontare è quello della scelta politica, intesa come politica culturale: quale storia insegnare nei differenti ordini e gradi di scuola, non è decisione neutra. La responsabilità di questa scelta non può essere solo degli storici professionisti, incapaci spesso di dare una risposta univoca (per le diverse concezioni metodologiche e storiografiche) e didatticamente praticabile (per quelle limitazioni di tempo e di alunni che non li coinvolgono); né soltanto dei politici, sensibili a ragioni propagandistiche ed elettorali (basti ricordare le polemiche post-1989 sull'uso politico della storia). Ancora più pericoloso sarebbe però affidare i programmi e l'ordinamento didattico soltanto agli addetti ai lavori, ovvero a quegli ambienti che hanno prodotto, per esempio, la silenziosa riforma dei Professionali, che, con il "progetto '92", ha scardinato nelle forme e nei contenuti l'insegnamento a botte di provvedimenti amministrativi, senza alcun intervento dell'autorità legislativa, e aggirando, tra l'altro, l'ostacolo della delega alle Regioni della formazione professionale.

Non diremo qui quali possano o debbano essere le conoscenze storiche fondamentali nella costruzione del curricolo scolastico. Distingueremo invece il livello delle scelte politiche, riservate al Governo e al Parlamento, da quello delle scelte didattiche, riservate all'insegnante. In quanto tali, le scelte politiche non possono accontentare tutti, anche se è auspicabile che godano di consenso abbastanza esteso tra gli esperti della disciplina e del suo insegnamento. La creazione di commissioni ad hoc, al di fuori delle normali articolazioni del Ministero, soluzione adottata sia da Luigi Berlinguer e Tullio De Mauro che da Letizia Moratti, risponde a questa esigenza, anche se non si può dire che il risultato sia stato positivo, almeno nel caso della commissione Antiseri-Cajani-Mori-Timpanaro-Croce. La proposta di quella commissione ha sollevato aspre proteste in gran parte del mondo accademico e scolastico. All'improvviso, l'Università si è così accorta di quello che bolliva in pentola (cioè nei Professionali) da molto tempo.

Lo studio della storia insegna a comprendere il mondo, abbiamo detto. Ma come si insegna a comprendere se non c'è qualcosa da comprendere? Come si separa la complessità di quello che si definisce contenuto dalla complessità di quelli che si definiscono obiettivi e finalità, cioè le stesse operazioni intellettive (mnemoniche o critiche, ma sempre difficili, di lento e complicato sviluppo) necessarie per comprendere? E, ancora una volta, quale contenuto? L'errore di un certo, estremo pedagogismo è che sia possibile sviluppare capacità del genere estrinsecamente, insegnare a saper fare senza sapere. L'errore di un certo, estremo "disciplinarismo" - potremmo dire per mantenere l'opposizione linguistica che stiamo seguendo - è che sia necessario, per comprendere il mondo, conoscerlo tutto, enciclopedicamente. L'errore di una certa didattica della storia è ritenere non possibile, ma obbligatorio formare piccoli storici in grado di analizzare una fonte o comprendere criticamente un fatto storico, in luogo di alunni con aborrite conoscenze "scolastiche" (ma come possono non essere scolastiche le conoscenze acquisite a scuola? - la battuta è di D. Starnone). Per arrivare a Le Roy Ladurie o Montanari ci sono però voluti prima Mabillon e Muratori. E la fatica (fisica e mentale) della memorizzazione e della nozione è viatico indispensabile a qualsiasi pensiero critico e creativo.

Il vero obiettivo è la crescita culturale dell'alunno, non il possesso della singola nozione - è scontato,  ma ciò non dovrebbe significare rinunciare al primo compito dell'insegnante: l'alfabetizzazione storica di base dell'alunno, fatta in primo luogo di piccole cose, di tempi e di spazi insomma: sapere che XIII secolo significa il '200, collocare in ordine cronologico Carlo V e Napoleone, sapere dov'è il Reno... È ammissibile che alcuni studenti universitari (futuri insegnanti) non sappiano rispondere a domande del genere? Sono pochi casi, ma lo scandalo insopportabile è che siano giunti nelle nostre università passando attraverso anni di scuola e un Esame di Stato, nonché altri esami universitari, e riportando persino voti decenti.

Privilegiare la storia contemporanea non risolve di per sé tutti i problemi, come se essa fosse più formativa delle altre storie e più interessante per  i giovani (e come se fosse storiograficamente scontato che l'Ottocento e il Novecento sono storia contemporanea). Il maggior tempo dedicato al XIX e XX secolo non ha affatto prodotto un sensibile miglioramento nell'interesse e nelle competenze degli alunni su quei periodi. Del resto, per una legge perversa della scuola italiana, le materie più studiate sono le meno conosciute e le più odiate in ciascun istituto (il greco e il latino al Classico, la matematica allo Scientifico, l'elettrotecnica negli Istituti tecnici industriali con quell'indirizzo!). Il problema della quantità si accompagna sempre a quello della qualità.

Esse però, quantità e qualità, non devono escludersi a vicenda. Il canone di argomenti da studiare deve essere significativo da un punto di vista storico e storiografico, ma deve essere sufficientemente ridotto da consentire un certo approfondimento. La scelta andrebbe fatta tenendo presente che, a livello didattico, e quindi diversamente nei diversi tipi di scuola, non tutti gli argomenti di studio hanno pari dignità, come invece avviene a livello scientifico e più genericamente culturale.

 

7. La formazione degli insegnanti: l'approfondimento disciplinare

L'inevitabile riduzione dei contenuti non dovrebbe intaccare la complessità e profondità di ciascun argomento studiato e della disciplina in generale. I nodi della didattica della storia, e di ogni didattica, sono pochi: come selezionare senza sbagliare, come semplificare senza banalizzare, come insegnare senza annoiare. Per fare questo è necessario, prima di tutto, che l'insegnante abbia una conoscenza approfondita della propria disciplina, di gran lunga superiore al livello dei manuali scolastici.

Qui arriviamo ad un secondo ordine di problemi: la formazione degli insegnanti. Non discuterò l'attuale struttura delle SSIS, né il loro futuro. Mi interessa riflettere ancora su quello che può essere il rapporto tra la ricerca storica e l'insegnamento oggi, ora, nelle scuole e con i programmi di storia vigenti, in qualsiasi occasione di formazione, non in una scuola ideale o non ideale del futuro, riformata secondo i progetti di Berlinguer-De Mauro o della Moratti. Mi interessa infatti, per vicende biografiche, il punto di vista dell'insegnante, che non può star dietro alle discussioni politiche e culturali, ma che ogni giorno entra in classe, con la testa confusa e con dei libri di testo che a volte gliela confondono ancora di più. Quale aiuto possono dare le università all'insegnante di storia in ruolo o in formazione?

Nella formazione degli insegnanti, al primo posto non può che restare la disciplina, in tutta la sua complessità. Non è possibile insegnare storia nelle scuole se non si è avuto almeno una volta un contatto intenso con la ricerca e con le fonti, anche solo attraverso lo studio serio di un argomento monografico. Sarebbe come insegnare l'inglese senza saperlo parlare, cosa che non di rado si verifica nelle nostre scuole. Se è improponibile trasformare gli alunni adolescenti in piccoli storici, è invece molto utile - sì, "utile" dal punto di vista della formazione culturale - mettere il futuro docente a contatto con un livello sufficientemente profondo della disciplina. Altrimenti, cosa ci si può aspettare da un insegnante che identifica la storia con il manuale che utilizza, al pari dei suoi alunni, che non si rende conto di cosa ci sia dietro quelle sintesi scorrevoli e quegli accattivanti corredi di immagini e cartine? Fatti, idee, documenti ambigui, giudizi e pregiudizi storiografici, difficoltà e alternative interpretative. Ancora: quale laboratorio potrà organizzare un insegnante che non ha mai avuto il minimo contatto con la ricerca d'archivio?

Oggi l'insegnante - l'insegnante medio, beninteso, non quello che per vicende personali o per forte motivazione continua ad approfondire lo studio della sua disciplina o a frequentare l'università - ha perso progressivamente il contatto con la storia-scienza, né conosce la pubblicistica e saggistica di livello medio. La tendenza si manifesta già durante la preparazione ai concorsi a cattedra (pare ormai estinti, purtroppo) e la frequenza dei corsi di abilitazione, quando sono i manuali scolastici, non quelli universitari, né tanto meno le monografie, pur a suo tempo studiate, ad essere il principale, se non l'unico strumento di lavoro. Durante l'insegnamento, i libri scolastici restano fonte di conoscenza per il docente, a volte quelli a cui ci si è affezionati, perché delibati da giovani. Del resto, è evidente che una parte dell'editoria scolastica corrente non si rivolge affatto agli alunni, bensì in primo luogo ai loro insegnanti, che seduce con le ultime novità della ricerca, con l'immediato adeguamento alle indicazioni ministeriali e alle mode del momento, con la superfetazione di guide all'uso del testo e di prove strutturate di pronto e comodo uso.

Tra i docenti di storia della SICSI si è discusso a lungo su cosa insegnare nelle ore di didattica frontale. Tre erano le possibilità: fare in qualche modo tutto, nel senso di ripercorrere i principali argomenti di ciascuna storia (greca, romana, medievale, moderna, contemporanea), verificando all'esame la conoscenza dei rispettivi manuali scolastici o universitari; scegliere solo qualche tema di particolare rilievo; o fare semplicemente didattica della storia, come suggerivano alcuni pedagogisti della Scuola. Si trattava di fare una scelta, determinata come al solito dal tempo a disposizione e dal livello degli alunni, dei quali nessuno aveva sostenuto all'università tutti e cinque gli esami di storia.

Torniamo alla falsa opposizione quantità/qualità. Qui, però, le cose sono più semplici, perché si ha a che fare con dei laureati, e non è necessario chiedersi, se non durante la selezione in entrata, quanto sanno di storia. Bisogna combattere la tentazione di ricominciare sempre daccapo, sempre con la "parte generale": l'eterno ritorno del manuale (universitario, scolastico, ma ormai è lo stesso...) è pericoloso, oltre che causa di noia nei migliori: significa mantenersi in superficie, dove tutto scorre senza problemi. Se qualcuno non conoscerà a sufficienza qualcosa, sarà sua cura recuperare da solo, con le sue forze: l'importante è costringerlo a farlo, ciò che si ottiene se si eleva molto il livello dell'insegnamento. D'altra parte, è evidente che un insegnante non può avere, se non dopo molti anni di studio e insegnamento, una conoscenza omogenea di tutta la storia che insegna, dal Paleolitico e dal Neolitico (che di norma non si studiano affatto in una facoltà di Lettere e Filosofia) fino ai giorni nostri. Non ha molto senso insegnargli tutto, e tutto ad un livello elementare, aspirando a riempire le infinite caselle del nostro passato, come se questo volesse dire, automaticamente, "sapere" la storia.

Alcuni docenti della SICSI, convinti del grande valore formativo dell'approfondimento monografico, hanno scelto di affrontare questioni storiche e storiografiche di particolare rilievo, su testi complessi (rassegne critiche, saggi specialistici), unico argomento dell'esame finale, scritto e orale, senza pretendere di valutare lo studente su tutta la "parte generale". Ad esempio, per gli studenti della classe di concorso A037 (filosofia e storia), nel modulo frontale di Storia medievale (18 ore) due docenti hanno affrontato i temi del feudalesimo, del Comune, dello Stato, studiati sui seguenti testi: G. Tabacco, Feudalesimo, in Storia delle idee politiche, economiche e sociali, diretta da L. Firpo, vol. II,2: Il Medioevo, Torino, Utet, 1983, pp. 55-115; E. Artifoni, Città e comuni, in Storia medievale, Roma, Donzelli, 1999, pp. 363-86; G. Petralia, “Stato” e “moderno” in Italia e nel Rinascimento, in “Storica”, 8 (1997), pp. 7-48; P. Schiera, Stato moderno, in Dizionario di politica, diretto da N. Bobbio e N. Matteucci, Torino, Utet, 1976, pp. 1006-12.

Si tratta, come si vede, di questioni che attraversano tutta la storia medievale e altomoderna, per comprendere le quali è comunque necessaria la conoscenza della "parte generale" di un esame universitario di storia medievale. Nulla di quanto letto in questi  saggi potrà essere utilizzato direttamente in classe, è scontato, ma il feudalesimo, in tutte le sue accezioni (come vincolo beneficiario-vassallatico, disgregazione dell'ordinamento pubblico, crescita dei poteri signorili, sistema feudale), le origini e lo sviluppo dei Comuni e lo Stato (per ceti, moderno) sono argomenti fondamentali in qualsiasi tipo di scuola e in qualsiasi manuale (oltre che in un eventuale nuovo canone di argomenti).

Se insegnare storia agli adolescenti significa educarli alla complessità storica del passato, insegnare storia agli insegnanti di storia significa educarli alla complessità storica e storiografica del passato. Non è possibile farlo in maniera sistematica, su tutte le storie e secondo tutte le prospettive possibili, ma, tutto sommato, non è neanche necessario. L'importante è provocare l'insegnante-discente, anche su un solo argomento, dandogli l'occasione di rompere il muro dell'apprendimento passivo, sempre più diffuso nelle nostre università, dimostrandogli l'irriducibile complessità della disciplina che insegna o insegnerà. Può darsi che, in questo modo, si possa scongiurare quell'analfabetismo di ritorno degli insegnanti medi a cui si è accennato.

 

8. La formazione degli insegnanti: una proposta per le ore di "laboratorio"

Si pensi ad un insegnante che, anche solo sugli argomenti che conosce meglio, si rende conto della scarsissima qualità del manuale che utilizza. Se ne renderà conto soltanto se le sue conoscenze della disciplina saranno adeguate, ovviamente, e quindi la storia-scienza gli avrà fatto un buon servigio. Ma un libro di testo, pur corretto scientificamente, potrebbe rivelarsi insufficiente, in generale o in una classe specifica, dal punto di vista meramente didattico. L'insegnante lo capirà proprio mentre sta spiegando o mentre sta interrogando. L'insufficienza didattica di un manuale, e al tempo stesso la sua insufficienza scientifica, si manifestano con particolare chiarezza in queste due occasioni: la spiegazione, l'interrogazione (che è sempre, come insegnano i pedagogisti, autovalutazione).

Che fare? L'insegnante non può certo mettersi a recensire criticamente il testo davanti alla sua classe di adolescenti impazienti e in cerca di certezze. Può integrare a voce, con uno schema alla lavagna. Può saltare, se non c'è il tempo di far tutto, proprio la parte fatta male. Può dettare appunti, distribuire fotocopie. Può ricorrere ad un documento, una videocassetta didattica, un film. Presupposto indispensabile di qualsiasi soluzione pratica resta comunque la sua conoscenza della disciplina. Ma è un punto di partenza: è ora necessario trovare qualcosa di diverso, subito, già in classe, perché non c'è tempo di riflettere, di andare in biblioteca (e quale? pochissime scuole ne hanno di decenti), non si può neppure aspettare l'indomani per cercare a casa, tra i libri propri e quelli di parenti e amici. La fretta, la ricerca incessante di nuovi testi e nuovi sussidi didattici, sono in realtà condizioni normali dell'insegnamento, anche quando si disponga di manuali soddisfacenti. È infatti la necessità di motivare gli studenti, accendere nei loro occhi il lampo dell'interesse e della comprensione che spinge il docente a praticare tutte le strade, a fare i salti mortali.

Quando si insegna, la dimensione della conoscenza disciplinare è sempre inestricabilmente connessa con la dimensione della capacità didattica. L'una si sviluppa in relazione con l'altra. L'approfondimento di un argomento è stimolato dalla difficoltà incontrata nello spiegarlo; la spiegazione è tanto più sintetica ed efficace quanto maggiore è lo studio che l'ha preceduta e quanto più ottusa e indisciplinata è la classe che ci si trova davanti. Se l'esperienza consente di avere, disponibili nella propria mente, certe esemplificazioni, certi argomenti, certi modi di affrontarli: certi contenuti e certe tecniche didattiche insomma che diventano, insieme, i cavalli di battaglia di ciascun docente, l'alternarsi ed il mutevole atteggiarsi nel tempo delle classi e degli alunni impongono continui aggiornamenti, continui aggiustamenti.

Questo è l'insegnamento, un mestiere che si costruisce giorno per giorno, fatto di conoscenze, competenze, capacità - verrebbe da dire riprendendo le famigerate tre c dell'Esame di Stato, dunque qualcosa che non si può imparare a tavolino, tra storia, pedagogia, psicologia, didattica, ma che non può prescindere da nessuna di queste discipline, trasfigurate nella concretezza della mediazione didattica.

Da molti anni, nei corsi di formazione di aggiornamento (oltre che nelle SSIS) è obbligatoria una ricca quota di ore di "laboratorio". In queste ore, l'insegnante-discente dovrebbe appunto sviluppare questa capacità di mediazione didattica, che è una capacità pratica, combinatoria, empirica, una capacità però che si può imparare. In particolare, nelle ore di laboratorio si dovrebbero affrontare, contemporaneamente, questioni disciplinari (epistemologiche, storiografiche, metodologiche) e didattiche, lavorando su argomenti particolarmente significativi da entrambi i punti di vista.

Proponiamo due attività in particolare, da farsi sia individualmente, sia in gruppo: la scelta di fonti da leggere a scuola, con eventuale traduzione o parafrasi e con la composizione di note introduttive ed esplicative; la preparazione e correzione di verifiche scritte ("aperte" e "chiuse") relative a quelle fonti o ai libri di testo in circolazione.

Scegliere e commentare una fonte è, per l'insegnante-discente, un'attività assai stimolante, prima di tutto perché lo avvicina di più alla disciplina, poi perché gli consente, con l'aiuto del docente universitario e della bibliografia specifica, di cimentarsi in una produzione creativa, e perciò stesso gratificante, ma non tanto ardua e pericolosa quanto quella di comporre un proprio personale compendio storico, come fanno alcuni insegnanti insoddisfatti dei libri di testo. In questo modo, si potrebbero produrre (e, perché no, mettere in rete) sussidi didattici di immediata utilizzazione, sperimentando un laboratorio che si proietti direttamente sui propri alunni, nel laboratorio di classe.

La disponibilità sul mercato di sussidi didattici (documentari, cartografici, iconografici, storiografici) è infinita e assai varia, con punte di eccellenza, specie nel campo dei prodotti multimediali. L'insegnante che voglia e che sappia non ha che l'imbarazzo della scelta. Tuttavia, il modo migliore per imparare ad utilizzare criticamente i sussidi didattici in circolazione è produrne qualcuno da sé.

Si potrebbe lavorare su fonti di particolare rilievo storiografico, su cui è costruita da centinaia di anni la nostra conoscenza del passato, e su fonti di storia locale. Pensiamo ai celebri passi di Tacito per la storia dei Germani, di Paolo Diacono per l'invasione longobarda, di Giovanni Villani per il Comune di Firenze, per restare nell'ambito della storia medievale. Se ogni alunno italiano finisce per leggere più d'una volta A Silvia o il canto di Ulisse, è giusto che più d'una volta legga un passo della Catilinaria, le tesi di Lutero, i provvedimenti che abolirono la feudalità nel 1789, il discorso di Mussolini per l'entrata in guerra dell'Italia, ecc. (per non parlare delle fonti non scritte, con le quali pochi hanno dimestichezza).

Quanto alla storia locale, la domanda degli insegnanti è a questo proposito costante, ma essi spesso non riescono ad accedere alla bibliografia più valida e più recente, sicché ripiegano su pubblicazioni scadenti, reperite casualmente. La raccolta e l'analisi di testi e documenti di interesse locale fornirà all'insegnante in formazione un buon materiale per il futuro e lo metterà in guardia dalle ingenuità di alcune esperienze scolastiche in questo campo.

Predisporre una fonte per utilizzarla in classe, con tanto di apparato, significa, sostanzialmente, preparare la lezione, ma ancorarla ad un testo scritto presenta molti vantaggi: una maggiore concretezza dell'attività di laboratorio, ovviamente, ed una più immediata utilizzabilità del prodotto didattico; la verifica seria di manuali scolastici ed universitari; la possibilità di discutere a diversi livelli: quello scientifico della critica della testimonianza, quello didattico del livello degli alunni, dei passi da chiosare, dei vocaboli da spiegare; una certa serenità nel rapporto del docente universitario con gli insegnanti-discenti, che, non sentendosi sotto esame per le loro conoscenze, sono più disponibili ad apprendere. Limitarsi a produrre, durante le ore di laboratorio, delle programmazioni di storia secondo le formule della didattica (finalità, obiettivi, prerequisiti, contenuti, tecniche, strumenti, tempi, verifiche...) significherebbe invece lavorare sulla didattica della storia estrinsecamente, senza parlare mai di storia, se non fingendo di sapere tutto, e senza parlare mai di alunni, se non per lamentarsi di quanto poco sanno e di quanto poco stanno attenti, come ha sperimentato chiunque abbia partecipato a gruppi di lavoro di questo tipo. Se, per ragioni burocratiche, è necessario imparare a tradurre in quelle forme precostituite le proprie idee, lo si faccia in quattro e quattr'otto, senza sprecare energie.

La seconda attività che proponiamo per le ore di laboratorio è la costruzione di verifiche: temi nel senso tradizionale del termine, domande a risposta breve, domande a risposta multipla. Al di là delle possibili critiche alle cosiddette prove strutturate, è un fatto che l'insegnante dovrà comunque farne uso, sempre nei Professionali e in molti Istituti tecnici, per i test d'ingresso e la terza prova dell'Esame di Stato in tutti gli altri istituti. Anche qui, il miglior modo per conoscere vantaggi e svantaggi di ogni tipo di prova è costruirne e verificarne qualcuna. Le prove potrebbero essere somministrate ai colleghi, o, meglio ancora, agli alunni delle scuole in cui si insegna o si pratica il tirocinio. Dopo, è fondamentale discutere e correggere insieme gli elaborati, decidendo voti o punteggi da attribuire. Così, con la disciplina tra le mani (quel libro di testo, quella domanda, quella risposta, quel voto da decidere), alcune fondamentali azioni didattiche, vissute sempre in solitudine (la costruzione di una prova, la valutazione), si fanno e si discutono insieme, con il conforto dell'esperto universitario, che ha tanto da imparare anche lui a questo proposito.

I buoni principi della didattica e della docimologia trovano così concreta applicazione: preparare la lezione utilizzando criticamente il libro di testo o altri materiali didattici, programmare il percorso didattico considerando il livello degli alunni e definendo in particolare gli obiettivi da raggiungere, identificare i contenuti scientificamente più rilevanti e didatticamente più utili; sottoporre a verifica soltanto quanto si è spiegato, e non altro, formulare tracce di temi o quesiti a risposta breve adeguati alle conoscenze degli alunni e al tempo a disposizione, formulare domande e risposta multipla non ambigue, non banali, stabilire il confine sicuro tra un compito sufficiente e uno insufficiente; valutare l'efficacia della propria azione didattica; lavorare in gruppo e decidere collegialmente.

Sia il commento di una fonte, sia la costruzione e validazione di prove scritte comportano tra l'altro il possesso, per nulla scontato nei laureati delle nostre università, di alcune abilità essenziali: scrivere in modo corretto e chiaro, usare il computer, scannerizzare un testo, cercarlo in biblioteca o su internet. Il laboratorio potrebbe anche essere il luogo dove analizzare il materiale didattico in circolazione: documentari, produzioni televisive e cinematografiche, cd-rom, siti web amatoriali e specialistici (a tale proposito, non faccio che riprendere la proposta avanzata da Andrea Zorzi durante il nostro incontro).

 

9. La libertà delle scelte didattiche

Immaginiamo un insegnante che, grazie a una formazione culturale ampia, ricca di cose inutili, sappia muoversi con disinvoltura nella sua disciplina, sappia leggere criticamente i libri di testo che maneggia, sappia sovvertire le modalità tradizionali di sintesi scolastica, sappia costruire liberamente la sua lezione con i materiali scientifici e didattici più vari. Grazie a questo bagaglio di conoscenze e capacità, l'insegnante avrà la forza culturale di assumersi le sue responsabilità e di fare le sue scelte: scelte intrinsecamente didattiche, le uniche che gli competono, e che egli deve poter assumere in piena libertà, contro il soffocante interventismo del Ministero e delle sue articolazioni periferiche.

Ciò che è assai pericoloso a livello di normativa ministeriale, è invece auspicabile da parte dell'insegnante, è suo compito specifico: contaminare storiografie e metodologie differenti, sintetizzare in maniera drastica, saltare del tutto un argomento, trattarlo da un solo punto di vista, strumentalizzare i contenuti per i motivi più vari, inventarsi un laboratorio bizzarro, insegnare comunque, anche se non ci sono gli alunni capaci, i libri giusti, i computer, le cartine geografiche, i videoproiettori. Le esigenze didattiche (quella classe, quell'alunno, quel libro di testo, quel tempo a disposizione), che solo il docente conosce, sono le uniche condizioni che garantiscono legittimità ad operazioni di qualsiasi genere, anche se esse dovessero risultare, alla fine, fallimentari. La fantasia, la provocazione, la storia "altra", pericolose quando sono al potere, quando cioè diventano un obbligo imposto dall'alto, tornano anch'esse utili all'insegnante, a patto che siano sorrette da una conoscenza profonda e articolata della sua disciplina.

Compito dell'Università è quello di formare un insegnante in grado di fare le sue scelte, con competenza disciplinare ed efficacia didattica. È possibile? Inutile sollevare le solite lamentazioni sulla scarsa qualità dei nostri studenti universitari, degli specializzandi, degli insegnanti delle nostre scuole. Persone capaci ce ne sono, e ce ne saranno sempre: poche forse, ma possono aumentare se tutte, durante la loro formazione professionale, incontrano la complessità dei contenuti e la sperimentazione concreta delle tecniche didattiche. Certo, ciò implicherebbe un notevole sforzo di organizzazione e di programmazione, quale non si è visto, finora, in molti Provveditorati agli studi e in alcune SSIS, la campana in particolare, che sono state una grande occasione mancata.

Il pericolo, che chi  scrive ha toccato con mano durante la propria esperienza di insegnante di scuola (corsi di formazione e aggiornamento, corsi UE contro la dispersione scolastica), e di docente nella SICSI (indirizzi linguistico-letterario e di scienze umane della "Federico II" di Napoli), è che le occasioni di formazione professionale e culturale si riducano ad una perdita di tempo e di energia per tutti, tranne che per chi ci guadagna, in termini economici e di potere.

Traditi nelle loro aspettative, gli insegnanti appassionati e capaci si sentiranno ancora più soli, incompresi dai "disciplinaristi", avviliti dalle petizioni di principio dei "pedagogisti". Gli insegnanti pigri e incapaci, d'altro canto, resisteranno tetragoni nella loro ignoranza, che non sarà scalfita dai "disciplinaristi", e saranno portati ad interpretare nel modo più banale e demagogico gli insegnamenti dei "pedagogisti".

Purtroppo, i danni del didatticismo e del pedagogismo mal compresi e peggio applicati sono stati e sono ben più gravi (e più difficili a rimediarsi) di quelli che furono causati, in un tempo ormai lontano, dal nozionismo e dall'autoritarismo.


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