Reti Medievali Rivista, III - 2002 / 2 - luglio-dicembre

Catia Renzi Rizzo

I rapporti diplomatici fra il re Ugo di Provenza e il califfo 'Abd ar-Ramân III:
fonti cristiane e fonti arabe a confronto

Testo | Note

© 2002 - Catia Renzi Rizzo per "Reti Medievali"


Testo

La nota testimonianza di Liutprando, in ordine ad un accordo stipulato da Ugo di Provenza con i saraceni di Frassineto, sembra trovare oggi un possibile riscontro con quella meno nota dello storico arabo Ibn Hayyân relativamente ad una tregua concessa al medesimo sovrano dal califfo ‘Abd ar-Ramân III.

Attraverso l’analisi comparata delle due diverse fonti il presente articolo propone una parziale ricostruzione dei complessi -e talvolta imprevedibili- rapporti, che i sovrani cristiani intrattennero con quelli musulmani nel corso del X secolo.


a)  La fonte cristiana

Lo storico olandese Dozy, nel 1913, riportava la notizia di un’alleanza stabilita dal re d’Italia Ugo di Provenza (926-947) con il califfo omeiade ‘Abd ar-Ramân III (913-961) per vendicare, a suo dire, i disastrosi attacchi di Genova degli anni 934-935, operati da un commando fatimita [1] .

El Haijji, più di cinquant’anni più tardi, riprese l’informazione e affermò di non avere trovato alcuna testimonianza né araba né cristiana che la suffragasse, ma soltanto l’attestazione di un patto stipulato tra Ugo e «il piccolo stato saraceno che alcuni avventurieri andalusi avevano fondato a Frassineto» [2] .

La fonte di riferimento è Liutprando [3] , il quale in effetti registra un accordo, di cui vedremo successivamente i caratteri sostanziali, allorchè narra le imprese di Ugo relative agli anni 940-942 e in particolare l’attacco congiunto portato per mare e per terra da lui e dai bizantini, suoi alleati, ai saraceni annidati appunto a Frassineto, da localizzare nell’area costiera intorno all’attuale Massiccio dei Mori [4] .

Si trattava di un insediamento costituito a partire dall’ultimo decennio del IX secolo da bande di marinai che avevano come principale obiettivo razzie e atti di pirateria per la cattura di ingenti quantitativi di schiavi. [5] Essi, composti essenzialmente da berberi, venuti dall’antica provincia romana della Mauretania, da iberi, convertiti e non, e da qualche arabo, pare siano stati i principali artefici del dinamismo marittimo e commerciale che si determinò nell’area del Mediterraneo occidentale a partire dal IX secolo e anche gli autori degli attacchi alla Provenza e all’Italia, come dei commerci con i berberi del Maghreb. E’ dunque a questi marinai, provenienti dalle coste sud-orientali della Spagna che -secondo la fonte araba al-Himyarî- si deve la nascita dell’insediamento musulmano di Frassineto. [6] Liutprando, che presenta la fortezza di Frassineto come un esempio eloquente dei disegni divini, me tacente loquetur opidum vocabulo Fraxinetum, così ne tratteggia i caratteri ambientali e la conquista:

«(…)essa è circondata dal mare da un lato e dagli altri è difesa da una densissima selva di rovi. Se qualcuno vi entra, è trattenuto dall’intrico dei rami e trafitto da acuminate spine tanto che non può né avanzare né ritornare se non con grande travaglio. Ma per un disegno di Dio occulto e giusto, giacchè non può essere diversamente, alcuni saraceni, una ventina appena, salpati dalla Spagna su una piccola nave, senza volerlo furono trascinati qui dal vento. Questi pirati, sbarcati di notte, entrano nel paese di nascosto ed uccidono, ahi dolore, i cristiani; impadronitisi del luogo, apprestano il monte Mauro vicino al paese come rifugio contro le popolazioni confinanti, rendendo quella selva di rovi ancora più estesa e più folta, per propria difesa, con questa legge: se qualcuno da essa avesse tagliato anche un sol ramo, sarebbe morto per colpo di spada. E così avvenne che fu tolta ogni possibilità di accedervi se non per una sola via strettissima. Fidando dunque nell’asperità del luogo, perlustrano di nascosto le genti vicine tutt’intorno. Mandano messi in Spagna per far venire quanti più uomini possono, lodano il luogo ed assicurano di non fare alcuna stima delle genti vicine. Infine conducono con sé per il momento solo cento saraceni a prender conferma della verità dell’asserzione». [7]

Il passo è posto all’inizio della narrazione di Liutprando: egli scrive nel 958 e riferisce avvenimenti di cui non è stato spettatore ma che, come precisa egli stesso, aveva udito da uomini di somma autorevolezza che li avevano visti in prima persona [8] . In realtà la descrizione del luogo sembra influenzata da topoi solo in parte attribuibili alla volontà di giustificare in un qualche modo l’inerzia cristiana. Se infatti appare plausibile far dipendere da essa l’immagine del nascondiglio del nemico-musulmano, protetto dalla spinea silva e aggredibile solo attraverso angustissima via, espressioni ricorrenti nelle cronache cristiane [9] , sembra una licenza poetica la punizione prevista per chiunque avesse tagliato i rami di quella foresta.

Egli inoltre, per sottolineare il disegno divino, che sicuramente –a suo parere- doveva essere sotteso all’impresa, accentua l’operato del caso e presenta l’arrivo nel luogo, peraltro già abitato, come un prodotto dell’azione dei venti: una sola imbarcazione vi giunse, con una  ventina di marinai-pirati.

Di fatto, le nostre attuali conoscenze sulle imbarcazioni musulmane, accresciute proprio negli ultimi anni dai risultati dell’archeologia sottomarina, praticata in special modo sulle coste provenzali e spagnole [10] , ci inducono a dubitare fortemente che le cose siano andate proprio in quel modo. Pur essendo state individuate come modelli-tipo, navi di modesta lunghezza, un equipaggio di soli venti uomini era comunque decisamente insufficiente anche per le imbarcazioni più piccole: si ritiene infatti che  esso fosse costituito –normalmente- da cinquanta a duecento circa marinai. Le navi comunemente utilizzate erano dotate di vele latine, che consentivano di stringere il vento e di adottare veloci andature di bolina; le più usate erano quelle denominate  ghirbân e qatâ’i, che erano imbarcazioni destinate essenzialmente alla guerra di corsa, ma -secondo alcuni storici, tra cui Picard- utilizzate frequentemente anche per il commercio.

Le ricostruzioni storiche più recenti riconducono l’occupazione di Frassineto all’operato di circa trecento marinai, trasportati quindi da un convoglio, seppur piccolo, di imbarcazioni: consuetudine, del resto, ampiamente testimoniata dai documenti, sia per i naviganti cristiani sia per quelli musulmani [11] . Gli studi attuali sulla pirateria andalusa confermano inoltre un’ipotesi ricostruttiva di questo tipo in quanto, a partire dagli anni quaranta del IX secolo, essa risulta essere divenuta un’attività pressoché regolare e finalizzata, tendente a contenere, se non ad escludere, azioni improvvisate e casuali.

In ordine agli obiettivi perseguiti e alla caratterizzazione etnica degli artefici nei differenti archi cronologici è stato proposto di articolarne l’evoluzione in tre distinte fasi, che sembra utile qui riassumere, in un breve excursus, ai fini di una migliore comprensione degli avvenimenti che stiamo analizzando.

 - La prima fase, messa in atto dal 798 all’813 per mano delle comunità di marinai in gran parte di origine berbera dislocate sul litorale catalano a sud dell’Ebro, ebbe come obiettivi le isole del Mediterraneo occidentale, Pantelleria compresa, e le coste italiane fino a Reggio; si trattò di spedizioni importanti, volte a catturare un gran numero di schiavi, certamente concertate da un’unica direzione, ma prive, sembra, di un carattere ufficiale, essendo in quegli anni l’emirato omeiade completamente occupato a risolvere gravi contrasti interni [12] .

- La seconda fase, in realtà, si caratterizza per la cessazione delle attività per quasi un trentennio, dovuta allo spostamento del teatro delle operazioni dal bacino del Mediterraneo occidentale a quell’orientale; una rivolta dell’818, infatti, avvenuta nei sobborghi di Cordova, comportò l’espulsione di alcune migliaia di andalusi sia della capitale sia delle zone di Tortosa e Valenza [13] . Essi si stanziarono dapprima ad Alessandria, quindi nell’827 a Creta. In quel periodo di calma per l’area mediterranea occidentale, gli aglabidi tuttavia fomentarono alcune spedizioni dall’Ifrikija verso la Sicilia e le coste italiane.

- La terza fase, in cui rientra anche l’occupazione di Frassineto, data dall’840 e fu opera, come già anticipato, di gruppi di iberi, convertiti e non, coadiuvati da pochi arabi; essi commerciavano attivamente con i berberi del Magreb, dove, secondo le fonti arabe, nella seconda metà del secolo risultano gestire propri fondaci nelle principali città (Bona, Bugia, Orano); dinamici ed abili nella navigazione come nel commercio, fondarono Ténès negli anni 875-876 e soprattutto Pechina- Almeria negli anni 889-890, cacciandone gli arabi-yemeniti che ivi presidiavano un ribat, una fortezza [14] . Intraprendenti e spinti dalla volontà di sottrarsi al controllo sempre più stretto che i sovrani omeiadi progressivamente misero in atto nel corso del IX secolo, questi autoctoni, spesso cristiani, costituirono una componente forte all’interno di quelle comunità di marinai insediate sulle coste e furono i principali artefici di tutte le attività legate al mare e al commercio: a loro si deve la decisione di dotare una delle porte della cinta muraria di Pechina di una statua di Maria Vergine.

Prospettato il quadro d’insieme entro il quale è necessario collocare la nascita e le possibili conseguenze dell’insediamento di Frassineto, è tempo di tornare ormai alla nostra fonte. Secondo Liutprando, l’accordo di Ugo di Provenza con i saraceni avvenne, secondo le ricostruzioni cronologiche possibili, nel corso dell’anno 942 [15] . Il re infatti, volendo cacciare definitivamente i saraceni annidati a Frassineto [16] , i quali dal 940 si erano insediati a S. Maurizio di Agauno interrompendo completamente le comunicazioni fra Italia, Provenza e Borgogna, [17] aveva mandato ambasciatori a Costantinopoli per sollecitare l’aiuto della flotta greca all’impresa. Ugo del resto non era nuovo a negoziazioni con l’imperatore bizantino: già nel 934 aveva intrecciato con lui rapporti diplomatici che si erano conclusi l’anno successivo con un’alleanza [18] ; l’accordo, sigillato da moltissimi doni preziosi portati a Ugo e ai suoi vassalli dal protospatario Epifanio, prevedeva che il re italico dovesse sottomettere i principi ribelli di Benevento, Capua e Salerno all’autorità imperiale e li forzasse a restituire allo stratega di Lombardia le piazze-forti che essi avevano occupato.

A tale scopo egli ricevette 1500 cavalieri estratti da tutti i corpi dell’armata bizantina e da tutte le colonie straniere dell’impero, macchine da guerra, cento libbre d’oro, mantelli, coppe di onice, manufatti vitrei di Balbeck, per sé e per i suoi luogotenenti, ma probabilmente senza raggiungere i risultati previsti: nel 936, quando le truppe di Ugo stavano probabilmente ritornando verso nord, Atenolfo di Benevento fece il raid su Siponto [19] !

Gli accordi del 941, pertanto, non erano che il frutto nuovo di un’intesa in atto da tempo e anche formalmente ricalcavano le modalità attuate precedentemente: colui che aveva bisogno dell’altro doveva offrirgli una bella contropartita, nel primo caso aiuti e ricchezze, nel secondo una figlia, che Romano Lecapeno chiese in sposa per il proprio nipote, il futuro Romano II. E Ugo, non potendo accogliere la richiesta in modo migliore, concesse una figlia illegittima, la bellissima Berta, che portava il nome della nonna paterna. Le nozze furono celebrate nel settembre del 944, ma la giovane Berta, che i greci chiamarono Eudocia, poté insignirsi del titolo regale solo per poco tempo, poiché morì precocemente nel 949 [20] . Ugo dunque, perfezionato l’accordo, nel corso del 942 «radunato l’esercito, inviate le flotte per il mare Tirreno a Frassineto, si diresse in quel luogo per via di terra. Al loro arrivo là i greci, gettato il fuoco, ben presto bruciarono tutte le navi dei saraceni. Ma anche il re, entrato a Frassineto, spinse tutti i saraceni a rifugiarsi sul monte Mauro, dove egli avrebbe potuto catturarli con l’assedio portato tutt’intorno [21] «se questo fatto, che sto per narrare », anticipa Liutprando, « non l’avesse impedito» [22] .

Prima di proseguire, vorrei fermare l’attenzione sull’espressione «classibus (…) directis», al plurale, che Liutprando usa per descrivere le forze navali che si portavano sull’obiettivo navigando nel Tirreno: è casuale? Io non ne sono pienamente convinta, anche se tutti gli storici da me presi in esame l’hanno interpretata diversamente [23] . Non mi sento di escludere, infatti, che le flotte fossero davvero più d’una, quella bizantina mandata dall’imperatore Romano e quella di cui poteva disporre Ugo in quanto re d’Italia. Non si può trascurare in realtà che proprio sua madre, la marchesa Berta di Toscana, nel 906 disponeva di una flotta in grado di svolgere azioni di difesa costiera antisaracena, che proprio lui nel 926 era sbarcato nel porto di Pisa [24] e che trent’anni dopo, nel 970, navi pisane appoggiarono l’imperatore Ottone, in Calabria, in un’azione anti-musulmana [25] .

Perché mai Ugo, a quella data, doveva essere completamente sprovvisto di navi? Certamente disponeva di una flotta toscana, ma probabilmente essa non era così forte da consentirgli un attacco antisaraceno proprio sul terreno infido di un luogo ben protetto e fortificato come Frassineto.

Ma torniamo alla fonte: Berengario, che già dall’inverno aveva abbandonato la sua marca e per la via del Gran San Bernardo si era rifugiato nella Svevia, di lì era riuscito ad ottenere, non si sa in quali termini, la protezione del re Ottone e sembrava che stesse per rientrare in Italia con truppe raccolte sia in Svevia sia in Francia.

Ugo, appresa la notizia, temette fortemente la perdita del regno e in preda al panico, « non bono accepto consilio», secondo Liutprando, ma certamente con una decisione coraggiosa e spregiudicata, interruppe immediatamente le operazioni militari, ad un passo dalla vittoria, rinviò le forze bizantine alleate alle proprie sedi e stipulò un vero e proprio patto con il nemico. [26]

Ma quali erano i termini dell’accordo e con chi esattamente egli trattò? La fonte cristiana è abbastanza generica al riguardo: «cum Saracenis (…) foedus iniit », dice infatti, aggiungendo, subito dopo: «ut in montibus qui Sueviam atque Italiam dividunt starent, ut, si forte Berengarius exercitum ducere vellet, transire eum omnimodis prohiberent ».

In sostanza, Ugo sembra trasformare i musulmani di Frassineto in una sorta di milizia di confine, offrendo loro il proprio riconoscimento ad azioni di controllo lungo le vie di comunicazione tra l’oltralpe e l’Italia, in cambio di un eventuale  atto di sbarramento nei confronti di Berengario. L’accordo viene giudicato scellerato da Liutprando, che lamenta biblicamente come esso causò un gran numero di morti tra i pellegrini diretti a Roma, il cui numero sa soltanto colui che «conserva i loro nomi scritti nel libro dei viventi » [27] .

Gli interlocutori di Ugo sembrerebbero quindi proprio e soltanto i saraceni di Frassineto, come è già stato scritto [28] , ma in realtà lo stesso Liutprando, all’inizio della sua narrazione, ci offre una chiave di lettura diversa. Rivolgendosi infatti a Recemondo, vescovo di Elvira, in Spagna, che lo aveva invitato a comporre le imprese degli imperatori e dei re di tutta l’Europa, e spiegandogli proprio l’ubicazione della fortezza di Frassineto, dichiara di essere convinto che il proprio interlocutore non solo non la ignori ma che anzi, la conosca meglio di lui, dal momento che può averlo appreso dagli stessi sudditi del proprio sovrano ‘Abd ar-Rahmân III [29] ! E in effetti a quella data l’intera al-Andalus era ormai da almeno un decennio sotto il controllo omeiade e nessun centro, dell’interno o costiero, godeva di autonomia, e alcuni governatori erano stati installati, dal governo centrale, nelle province costiere di Pechina, Tudmir, Valenza e Tortosa [30] : fare un patto con i marinai di Frassineto significava in realtà farlo con il califfo di Cordova, come potremo verificare ancora meglio dalla lettura della fonte araba.


b) La fonte araba

Il cronista è Ibn Hayyân, nativo di Cordova, il quale intorno alla metà dell’XI secolo produsse una nuova edizione delle cronache ispano-arabe anteriori, particolarmente preziosa per gli anni relativi al regno di ‘Abd ar-Rahmânn III (Muqtabas, V) [31] . Oggi abbiamo la possibilità di leggerla in un’edizione relativamente recente in lingua spagnola [32] , ma estratti dei brani relativi all’accordo del califfo con alcuni sovrani cristiani furono oggetto anche di una relazione tenuta da Pedro Chalmeta nel 1975 a Barcellona [33] , quando la fonte araba non era ancora stata pubblicata e lo storico sperava che l’intervento gli procurasse l’aiuto dei colleghi italiani e francesi presenti al convegno per l’identificazione dei luoghi designati da alcuni toponimi arabi. Chalmeta in quella sede ipotizzò come probabile che Unguh, uno dei muluk presenti [34] , fosse il re italico Ugo di Provenza [35] , e la bibliografia posteriore, in gran parte francese, a parte le incertezze sopravvenute negli anni immediatamente successivi, ha generalmente accettato come valida la proposta dello studioso spagnolo [36] ; io, per il momento, preferisco assumere tale indicazione in modo ancora dubitativo, accettandola come ipotesi di lavoro, riportando quindi il nome Ugo fra virgolette e rinviando alla fine dell’analisi della fonte l’espressione dell’opinione maturata.Vediamo dunque i passi di questa cronaca per noi più interessanti, tralasciando gli antefatti, pur preziosi per una corretta interpretazione degli avvenimenti [37] :

«In quell’anno (328/940) il segretario giudeo Hasday (…) concluse la pace con Sunyer (…) signore di Barcellona e delle sue province, seguendo  le condizioni gradite e fissate da al-Nasir. Hasday si recò personalmente a Barcellona per la ratifica di dette clausole da parte di Sunyer, signore della città. Fu concordato che la squadra navale sarebbe partita da Almeria, guidata da Ibrahim ‘Abd ar-Rahmân di Pechina, l’11 maggio 940 e che sarebbe arrivata a Barcellona il venerdi 19 luglio. Hasday informò Ibrahim e gli altri ufficiali della pace conclusa con Sunyer, signore della città e che essi avrebbero dovuto cessare le ostilità al suo incontro. La flotta levò l’ancora dal porto di Barcellona il giorno medesimo.
Hasday invitò ugualmente dei grandi (‘uzama’) che si trovavano a Barcellona a entrare nell’obbedienza e nella pace con al-Nasir. Un gruppo di questi re (muluk) accettò, tra questi Unguh, uno dei loro grandi, il cui dominio era la terra di Napoli. Questi inviò alla capitale di al-Andalus una delegazione che lo rappresentava e chiese la sicurezza per i commercianti del suo paese nei loro viaggi verso al-Andalus. Il califfo aderì alla richiesta e inviò il testo del trattato a Nasr b. Ahmad, comandante di Frassineto e ai governatori delle Baleari e dei porti costieri dell’Andalusia. Questo trattato avrebbe garantito a tutti coloro che erano sotto la giurisdizione di Ugo così come alle altre genti di questa nazione che erano comprese nella pace, la sicurezza tanto per la loro vita quanto per i loro beni e per tutto ciò che i loro vascelli trasportavano, con la facoltà di negoziare le loro mercanzie dove fosse sembrato loro opportuno.
A partire da questa data i loro navigli arrivarono regolarmente ad al-Andalus e i musulmani ne approfittarono grandemente.
Riquilda, figlia di Borrell [38] , la quale reggeva il suo popolo di Franchi, seguì l’esempio di questo Unguh nella pace con al-Nasir. Ella inviò Barnat al-Isra’ili, suo uomo di fiducia, al califfo. Egli era portatore di stupefacenti e splendide meraviglie del suo paese: al-Nasir accettò i doni, contraccambiando con altri ancora più preziosi e ricevette con grandi onori i suoi inviati.
In seguito, il 6 settembre, Hasday si presentò davanti ad al-Nasir, tornando da Barcellona, dopoché tutto ciò era stato messo per iscritto. Hasday era accompagnato da Gormaz [39] , inviato di Sunyer, secondo le clausole che gli erano state imposte.

<!--[if !supportLists]--> -      La prima era che Sunyer doveva cessare di portare aiuto e assistenza a tutti i cristiani che non erano compresi nella pace di al-Nasir (…) e di intrattenere con costoro delle relazioni amichevoli.
<!--[if !supportLists]--> -      La seconda era che egli doveva restare nell’obbedienza del califfo e chiedere il suo assenso.
<!--[if !supportLists]--> -      La terza consisteva nella dissoluzione dell’alleanza matrimoniale con García Sánchez, signore di Pamplona [40]
<!--[if !supportLists]--> -      Da ultimo, il catalano doveva rispondere anche di tutto ciò che avessero fatto i signori delle regioni vicine che dipendevano dalla sua autorità e che fossero entrati con lui in questa pace con il califfo.
Il califfo fece pervenire il testo degli accordi conclusi con il conte ai governatori delle coste e ai comandanti della flotta. Egli ordinava loro di evitare di attaccare le province catalane e di risparmiare le genti di questo paese. Al-Nasir (…) da parte sua si obbligò all’osservanza degli impegni previsti nell’amân concluso con il detto Sunyer [41] . Il trattato di pace (…) aveva una durata di 2 anni completi: Tutto ciò fu registrato, davanti a testimoni, nella seduta plenaria del consiglio, mercoledi 18 settembre 940 ».

In realtà già nell’agosto 941 Sunyer inviò a Cordova il visconte perché rinnovasse il patto e confermasse la propria sottomissione [42] : la fonte non ne fornisce la ragione, ma vedremo successivamente che il fatto, a tutta prima sorprendente, trova una sua convincente spiegazione.

E vediamo quanto Ibn Hayyân registra per la primavera successiva:

« Nel marzo 942 alcuni mercanti amalfitani arrivarono a Cordova. Essi vennero per mare in al-Andalus, volendo farvi commercio con le merci che essi portavano. Non si ha conoscenza alcuna –prima dell’epoca di al-Nasir (…)- che essi siano mai penetrati nel nostro paese, né siano arrivati ai nostri porti, né per terra né per mare. Essi  sollecitarono il salvacondotto del sultano. Questi mercanti portavano prodotti meravigliosi dal loro paese: fini broccati, porpore eccellenti e altre merci preziose, la maggior parte delle quali acquistò al-Nasir a prezzo modico e il resto i suoi cortigiani e i commercianti della capitale. Tutti fecero buoni affari e furono soddisfatti delle transazioni. Più tardi i loro successori continuarono a venire in al-Andalus e ciò fu di grande vantaggio» [43] .

Probabilmente il guadagno ricavato dall’apertura di nuovi mercati fu davvero notevole se ad agosto dello stesso anno il cronista registra un nuovo arrivo di amalfitani che accompagnavano questa volta un ambasciatore del “signore della Sardegna” incaricato di negoziare un trattato di  pace e di amicizia con ‘Abd ar-Rahmân III; ma leggiamo la cronaca, che si rivela interessante  per vari aspetti:

« Il martedì 24 agosto 942, un messaggero del signore dell’isola di Sardegna si presentò alla Porta di al-Nasir (…) chiedendo la concessione di un trattato di pace e di amicizia. Con lui vennero dei mercanti, gente di Malfat, conosciuti in al-Andalus come amalfitani, con tutto l’assortimento delle loro preziose merci: lingotti d’argento puro, broccati ecc…transazioni da cui si trasse guadagno e grandi vantaggi » [44] .

In sintesi, nell’arco di 2 anni appena, Ibn Hayyân ci testimonia rapporti diplomatici tra il califfo omeiade e ben tre, o meglio quattro sovrani italiani: probabilmente «Ugo» di Provenza, allora re d’Italia, gli innominati  principi amalfitani, che erano allora Mastalo I e suo figlio Giovanni [45] , giudici e patrizi imperiali, e un non meglio identificato «signore della Sardegna» [46] .

Le trattative erano in mano ad un personaggio di alto livello, che godeva di tutta la fiducia possibile da parte del califfo: l’ebreo Hasday, medico e uomo di stato, che parlava bene la lingua dei cristiani oltre che l’ebraica, l’araba e la latina e aveva capacità e conoscenze riconosciute e vantate universalmente [47] .

 c)   L’accordo di «Ugo» secondo Ibn Hayyân: prime considerazioni

Riprendiamo ora in esame l’accordo più antico, quello di «Ugo» e analizziamolo con attenzione. E’ necessario cominciare dalle circostanze esterne che lo hanno promosso: le trattative di pace intercorse tra il cristiano Sunyer, conte di Barcellona e il musulmano ‘Abd ar-Rahmân III, califfo omeiade dell’Andalusia, tra la primavera e il settembre dell’anno 940, secondo l’editore.

Quanto alle contingenze in cui esso è avvenuto, la fonte musulmana colloca il trattato tra il sovrano italiano e il califfo in una posizione davvero curiosa, come corollario ad un patto i cui protagonisti mostrano impari forza contrattuale e si legano, per un biennio, ad una sorta di improprio rapporto di vassallaggio, in cui il più debole, il conte di Barcellona, Sunyer II (911-947), doveva all’altro, il sovrano musulmano, obbedienza e comportamenti da lui approvati. In questi obiettivi rientravano la rottura immediata dell’alleanza matrimoniale con il signore della Navarra e la negazione di relazioni amicali e quindi in realtà commerciali, con quanti, dei cristiani, non fossero entrati in questo accordo [48] .

Il medesimo cronista Ibn Hayyân, per la primavera- estate dell’anno 323 dell’Egira, corrispondente al 935 dell’era cristiana [49] , segnala per la verità un’importante campagna militare contro «i Franchi»: 40 vascelli, di cui 20 incendiari portatori di nafta e di congegni marittimi e 20 adibiti al trasporto delle truppe, partiti dal porto di Almeria nel mese di giugno, poi convogliati nell’isola musulmana di Maiorca per l’ispezione dell’ammiraglio, ripartirono di lì il primo di luglio ed attaccarono in un rapido raid dapprima un luogo fortificato non ben identificato, a sette giorni di navigazione da Maiorca, poi la città di Nizza, definita «cantiere di costruzione navale e bacino di riparazione», successivamente Marsiglia e Montpellier, quindi Barcellona e infine Tortosa, al confine musulmano. Inconsistenti le perdite e ricco il bottino, secondo il racconto del cronista [50] .

Conosciamo tuttavia la probabile reazione catalana a tale aggressione: per gli anni 936-937 Ibn al-Athîr registra che il conte di Barcellona Sunyer II attuò una spedizione contro i territori musulmani che causò saccheggi ed uccisioni ma procurò 2 importanti risultati: l’abbandono momentaneo di Tarragona da parte musulmana e la soggezione di Tortosa ad un tributo [51] .

Per gli anni 939-940, infine, il medesimo Ibn Hayyân segnala «che due navi partirono da Almeria e raggiunte a Tortosa da quattro galee e due battelli leggeri da ricognizione, avanzarono fino all’estremità del golfo di Ampurias, poi ritornarono sulla costa di Barcellona dove un personaggio ufficiale, forse l’inviato di Cordova incaricato di ricevere il tributo dai conti, ordinò loro di non causare danni alla città né alle genti del suo litorale» [52] .

E’ questo dunque il quadro degli eventi che portò all’accordo tra Sunyer e il califfo, un susseguirsi di aggressioni reciproche portate per mare ai centri costieri della Spagna orientale in cui però è possibile cogliere alcune certezze.

- Già prima della metà del secolo X il califfo di Cordova aveva il pieno controllo del suo territorio e i governatori delle province costiere e insulari, Frassineto compreso, erano tenuti a far osservare con tempestività ogni cambiamento di politica estera.

- La città di Almeria, sede dell’ammiragliato dal 933 [53] , e luogo di partenza di ogni spedizione offensiva contro « i Franchi », era allora una città in forte crescita urbana e le fonti ce la descrivono ricca di infrastrutture portuali che ne fecero anche successivamente il luogo privilegiato di arrivo dei commercianti: lì furono centralizzati gli uffici per l’acquisto dei diritti di dogana da parte dei cristiani e lì venivano convogliate le merci in arrivo e in partenza per le altre località dell’Andalusia musulmana. La fonte spiega questa posizione di privilegio della città sugli altri centri costieri anche con la particolare posizione geografica da essa rivestita nell’ambito del Mediterraneo occidentale: occupava una posizione mediana, era spaziosa e ben situata per coloro che arrivavano e per coloro che partivano [54] .

- Le forze cristiane, coagulate intorno ai conti di Barcellona (come interpretare altrimenti la presenza «dei grandi» nella città al momento dell’apertura delle trattative?) cercavano di trovare in quel contesto soluzioni favorevoli al loro commercio, sia mediante il ricorso alle armi sia mediante accordi che, pragmaticamente, non escludevano il pagamento di tributi e l’accettazione temporanea di ruoli di subalternità e di promesse di obbedienza.

Il più dignitoso -per la parte cristiana- sembra essere proprio quello conseguito dal supposto «Ugo», che in cambio del formale impegno di pace a condizioni di subordinazione, -almeno da quanto appare dalla lettura della fonte, certamente di parte- chiese ed ottenne una tregua assai utile per gli interessi economici del proprio paese: i mercanti italici avrebbero potuto navigare nel Mediterraneo occidentale senza essere attaccati né dai marinai-pirati di Frassineto, né da quelli delle Baleari e dei centri costieri dell’Andalusia. Si trattava di una sorta di trattato commerciale, che anticipava, in ordine agli obiettivi e alle modalità, quelli che due secoli più tardi Pisa, ormai grande città marinara, pragmaticamente stabilì con i sovrani islamici dell’Andalusia [55] .

Secondo quanto la fonte sottende, il trattato, che era in sostanza un temporaneo salva-condotto, avrebbe dovuto garantire sicurezza sia per la navigazione sia per il commercio non solo ai sudditi di «Ugo», ma anche a coloro che «Ugo» rappresentava, quindi, sembra di capire, anche ai mercanti di stati non soggetti direttamente alla sua giurisdizione, ma da lui protetti e garantiti. Si può cogliere in questo passaggio del cronista l’anticipazione e insieme la spiegazione di quanto verrà detto all’anno 942: l’arrivo in al-Andalus prima degli amalfitani, nel marzo, poi ancora degli amalfitani e di un ambasciatore sardo, nell’agosto, che non potendo evidentemente usufruire dell’accordo di «Ugo», cercò di negoziare a sua volta condizioni di sicurezza per i propri mercanti. E il cronista non nasconde l’entusiasmo per i vantaggi che tutte le parti contraenti trassero da quell’accordo, che portò ad una sorta di rinascita degli scambi e all’approvvigionamento reciproco in merci preziose. Addirittura lingotti d’argento puro, portati dagli amalfitani, precisa la fonte, insieme ai broccati e alle porpore [56] , ma poiché essi in realtà non erano che degli intermediari commerciali [57] si potrebbe pensare o allo sfruttamento delle miniere d’argento della Sardegna già a quella data, ma nessun’altra fonte, scritta o archeologica, può rafforzare, allo stato attuale delle conoscenze, quest’ ipotesi, o a tecniche di fusione di oggetti preesistenti, come invece gli studi hanno già evidenziato [58] .

Più preziosa mi pare la fonte in ordine all’assetto politico-istituzionale dell’isola sullo scorcio finale del quarto decennio del secolo X: essa infatti nomina un ambasciatore del «signore della Sardegna» e pur tenendo presente che il riferimento ad un unico capo può essere dovuto ad una generalizzazione del cronista, ad una sua imprecisione o anche ad un’ignoranza di fatto della realtà amministrativa dell’isola, la testimonianza può anche rafforzare l’ipotesi del Mor, secondo la quale almeno fin «verso la metà del X secolo il governo sardo era ancora unico ed il legame con Costantinopoli abbastanza corrente» [59] . Egli basava il suo convincimento in primo luogo sulla constatazione che l’imperatore Costantino VII Porfirogenito (912-959) annoverava il capo della Sardegna, con il titolo di arcon, fra i vassalli diretti di Costantinopoli. In effetti, nel Libro delle cerimonie, redatto per volontà dell’imperatore, si legge: «Per l’arconte di Sardegna una bolla di due soldi d’oro; ordinanza degli imperatori amici di Cristo all’arconte di Sardegna» e poiché, come è stato osservato -a me pare opportunamente- l’indicazione precede quelle relative al duca di Venezia, al principe di Capua, a quello di Salerno, al duca di Napoli, agli arcontes di Amalfi, di Gaeta e di Bulgaria, «è chiaro che per la cancelleria di Costantinopoli si tratta di un governatore di tutta la Sardegna», un capo supremo di un’unità amministrativa, formalmente ancora bizantina ma di fatto in un regime di semiautonomia [60] .

Uno status determinatosi, secondo un’analisi che mi sento di condividere, allorché, alla metà del secolo VIII, i sardi subirono l’assalto del governatore arabo dell’Africa, ‘Abd ar-Rahmân, e non solo non furono difesi dai bizantini ma dovettero impegnarsi a pagare un’imposta di capitazione (jizya) ai nuovi venuti, che si aggiunse alla vecchia tradizionalmente versata nelle casse di Costantinopoli, analogamente a quanto avvenne a Cipro [61] . I fatti, narrati da Al-Bayân e Ibn al-Athîr, avvennero negli anni 752-753 [62] , e fecero seguito a due precedenti, attacchi, avvenuti nel 711 e nel 735-736 [63] . Dei cronisti che li riportano, solo Al- Mahâsin prospetta una vera e propria conquista, ma rileggendo in sequenza gli avvenimenti appare chiaro che lo scopo delle incursioni non era tanto l’occupazione dell’isola, quanto la razzia e l’incetta, anche fiscale, come si è visto. Un mezzo, quest’ultimo, che forniva, come valore aggiunto, anche una sudditanza psicologica dei sottoposti [64] .

Certamente non è dato di escludere che in quest’arco cronologico, così stando le cose, non vi possa essere stata, sull’isola, la presenza di piccoli gruppi musulmani stabili e questo spiegherebbe il ritrovamento di alcune monete in rame, riferibili agli anni tra il 700 e il 778, la cui circolazione era limitata alla comunità di appartenenza, essendo il rame un metallo che generalmente non viaggiava né era tesaurizzato [65] .

L’altro dato su cui Mor aveva basato la sua convinzione era stato ricavato da alcune fonti arabe, le quali, nel narrare gli attacchi fatimiti a Genova degli anni 934-935, ricordano che sulla strada del ritorno la flotta saracena razziò anche le coste della Sardegna, distruggendo parecchie navi: certamente, secondo lo storico, bizantine.

In effetti mentre l’episodio è riportato in modo sintetico dalla «Cronica di Cambridge» e dallo storico al-Bayân, negli Annali di Ibn al-Athîr, An-Nuwayri, Kaldûn, Al-Mahâsin e al-Dhahabi si narra che la flotta araba, partita da al-Mahdîa, dopo aver assaltato e preso Genova, passò in Sardegna, dove si scontrò con le genti del luogo, fece prigionieri e bruciò molte navi [66] : erano necessariamente bizantine quelle navi? E la loro presenza in un porto della Sardegna indica univocamente che l’isola era ancora soggetta all’impero bizantino? Quanto al primo quesito è chiaro che non ho alcun elemento né per escludere né per far mia l’idea del Mor circa la probabile identità bizantina di quelle navi, avendo però accettato la ricostruzione di uno stato di semiautonomia della Sardegna intorno alla metà del X secolo, proprio confortata in questo dalla nuova testimonianza di Ibn Hayyân, va da sé che le navi in porto potevano essere anche il frutto di una flotta propriamente sarda.

Nel caso tuttavia che non lo fossero non vedo come la loro presenza, da sola, possa rinforzare l’ipotesi della persistenza del domino bizantino sull’isola e non, più semplicemente, del permanere di scambi e traffici su rotte e porti da sempre frequentati.

Vorrei qui ricordare che il medesimo Ibn al Athîr, all’anno 901, riporta la notizia che ben trenta navi provenienti da Costantinopoli e ormeggiate nel porto di Messina finirono nelle mani di una squadra araba guidata dal governatore della Sicilia a seguito di un contrasto insorto improvvisamente [67] : cosa può indicare la notizia se non che i mercanti bizantini, in numero altresì considerevole, avevano continuato a frequentare i porti siciliani anche successivamente alla conquista musulmana dell’isola, pur in uno scenario fatto di rapporti imprevedibili e repentinamente mutabili?

Mi sembra logico, a questo punto, esprimere le mie perplessità di fronte ad affermazioni generali ed assolute  secondo le quali l’occupazione della Sicilia avrebbe causato un blocco pressoché totale dei transiti per lo stretto di Messina e il canale di Sicilia e un isolamento secolare della Sardegna, abbandonata a se stessa dal governo di Costantinopoli [68] : spero che il progredire della ricerca, in senso multidisciplinare,  consenta di riannodare le trame e le connessioni che le fonti scritte finora disponibili non hanno permesso –a mio parere- di mettere sufficientemente in luce [69] .


d) Uno o due gli accordi?

E’ necessario tornare ancora una volta sui termini degli accordi registrati dalle due fonti, Liutprando ed Ibn Hayyân: si tratta in entrambi i casi di sospensioni temporanee delle ostilità attuate a tutela della navigazione e del commercio, ma le circostanze esterne appaiono tanto difformi che mi sembra verosimile ipotizzare non uno ma due accordi, avvenuti in tempi diversi.

A questo scopo analizziamo con cura la cronologia dell’ultima intesa presa in esame, quella registrata da Ibn Hayyân al 940, in particolare gli abbinamenti dei giorni della settimana con quelli del mese, così come li hanno proposti gli editori del testo arabo: venerdì 19 luglio 940, mercoledì 18 settembre 940; essi non paiono essere giusti, lo sono soltanto, e entrambi,  se l’anno di riferimento è il 939 e non il 940 [70] ! Tra l’altro, abbiamo un ulteriore riscontro della validità della correzione: avendo l’accordo tra il califfo e il conte di Barcellona una durata, dichiarata dalla fonte, di due anni, appare del tutto normale, a questo punto, che Sunyer abbia inviato il visconte a Cordova per il rinnovo del patto nell’agosto 941 e non l’anno successivo, come ci si sarebbe dovuto aspettare, al contrario, se la stipulazione del trattato fosse avvenuta realmente nel settembre del 940!

E’ giocoforza, di conseguenza, anticipare al 939 anche l’accordo di «Ugo» con ‘Abd ar-Rahmân III e chiedersi se l’arrivo degli amalfitani a Cordova sia avvenuto realmente nel 942. La fonte araba ci informa soltanto che si è verificato nel marzo di quell’anno e quindi al momento non siamo in grado di contraddirla; aggiunge, tuttavia, che il martedì 24 agosto del 942, gli amalfitani giunsero nuovamente nella capitale califfale, accompagnando alla presenza del sovrano omeiade un messaggero sardo, determinato ad ottenere per il suo signore un ulteriore accordo di pace e di amicizia. Ebbene, anche in questo caso i riscontri da me effettuati indicano che l’anno dovrebbe essere il 941 [71] , e poiché l’avvenimento è chiaramente successivo all’altro, è probabile che anche il primo arrivo degli amalfitani a Cordova sia avvenuto nel 941, se non addirittura nella primavera del 940, cosa che non mi sento di escludere del tutto.

A questo punto, fatto ordine nella sequenza temporale dei fatti, appare chiaro che gli accordi registrati dalla fonte araba e da quella cristiana furono veramente due e che risultano stipulati ad un intervallo di circa tre anni l’uno dall’altro. Questa lettura degli avvenimenti sembra –a mio avviso- più verosimile anche in ordine alla sostanza stessa dei fatti narrati: appare poco credibile infatti, che nei mesi in cui Ugo stava organizzando coi bizantini l’attacco a Frassineto, a seguito, possiamo oggi ipotizzare, della rottura della tregua in precedenza stabilita, gli amalfitani continuassero ad intrattenere con il califfo rapporti diretti e che l’inviato sardo proprio in quel momento cercasse di intavolare delle trattative diplomatiche. L’interpretazione risulta tanto più improbabile per il fatto che gli amalfitani -almeno a quanto riferisce la fonte- sembrano aver utilizzato «secondariamente» la tregua stabilita da «Ugo» e non averla concordata in prima persona: i rapporti di «Ugo» con il califfo avrebbero dovuto pertanto condizionare anche i loro.


e) I rapporti diplomatici musulmano-cristiani: considerazioni conclusive

A questo punto è proprio necessario concludere e pronunciarsi in ordine all’ipotesi di lavoro sottesa all’analisi fin qui condotta: il malik che strappa un temporaneo salvacondotto al califfo ‘Abd ar-Rahmân III può essere davvero Ugo di Provenza? Non posso nascondere che l’attributo di «re di Napoli», utilizzato da Ibn Hayyân per il personaggio in questione, mi lascia molto perplessa: faccio fatica a ritenere che si tratti di una generalizzazione per indicare il regno italico, allora limitato all’ Italia centro-settentrionale, Roma esclusa; il cronista arabo, che è ritenuto uno dei più grandi storici del medioevo musulmano, scrisse intorno alla metà dell’XI secolo e compilò una nuova edizione della storiografia ispano-araba anteriore [72] : dobbiamo pensare che ignorasse totalmente l’opera del geografo Ibn Hawqal [73] ? Questi infatti, mercante di Bagdad e gran viaggiatore, descriveva così l’Italia meridionale nella seconda metà del secolo X:

«Indi il territorio della Qillawrîah (Calabria) confina con quello di ’Ankubardah (Longobardia), i Principati Longobardi, il primo dei quali è S. Tûr.y (leggasi Salerno). Indi [si vien a’] contorni di Malfi (Amalfi): la più prospera città di Longobardia, la più nobile, la più illustre per le sue condizioni [civili?], la più agiata ed opulenta. Il territorio di Amalfi confina con quello di Napoli; la quale è bella città, ma meno importante di Amalfi. La principale ricchezza di Napoli [consiste] nel lino e ne’ tessuti di quello (…). [Il territorio] di Napoli confina con quello di Gaeta, indi il territorio cristiano continua lungo il mare fino al paese de’ Franchi…» [74] .

Certamente non si tratta di una descrizione del tutto corretta, il quadro d’insieme, tuttavia, ci consente di appurare, nel suo autore, il possesso di un certo numero di informazioni che, se fossero passate ad Ibn Hayyân, non avrebbero in alcun modo consentito, a mio parere, l’attribuzione ad «Ugo» del dominio sul territorio di Napoli.

Ferme restando queste mie perplessità mi chiedo tuttavia: quanto è congruo l’accordo con gli obiettivi politici perseguiti dal re italico durante il suo regno?

La sua azione, in estrema sintesi, sembra essere stata conformata al raggiungimento di alcune finalità, purtroppo per lui, non tutte realizzabili:

· Difesa e rafforzamento della propria sovranità;

· attuazione di una rigida politica accentratrice;

· allargamento delle aree su cui esercitare la propria giurisdizione, diretta o indiretta;

· tutela del  territorio di pertinenza dalle scorrerie saracene ed ungare.

In ordine a questi punti mi sembra che la ricerca di un salvacondotto per i propri mercanti da parte di Ugo fosse del tutto consequenziale. E’ innegabile, infatti, che essa conferiva prestigio ad un regnante che pur nella limitatezza territoriale della sua sovranità era e veniva riconosciuto da Costantinopoli, ad esempio, come «l’erede della dinastia carolingia e il solo sovrano dei Franchi in Occidente» [75] . Gli consentiva, inoltre, di proteggere, seppur temporaneamente, le terre italiche e anche quelle della Provenza meridionale, di cui era sempre rimasto duca [76] , da una pressione saracena che negli ultimi cinque anni si era fatta particolarmente devastante: degli anni 934-935, lo abbiamo già ricordato, sono gli attacchi a Genova [77] , del 936 quello al Piemonte meridionale, e in particolare ad Asti, che era stato rintuzzato grazie al coraggio e alla determinazione del vescovo, ma anche alle truppe del marchese d’Ivrea e probabilmente dello stesso Ugo [78] . Gli offriva l’opportunità, infine, di rappresentare -secondo la fonte- anche gli interessi di quei principati longobardi dell’Italia meridionale che, pur vivendo una condizione di vassallaggio nominale da Bisanzio, erano di fatto principati indipendenti [79] . A questo proposito è stato osservato come Ugo, che pure durante il suo regno ha sempre evidenziato una politica di costante e fedele alleanza con l’impero bizantino, verso il 944 sembra avere concesso a Landolfo, principe di Capua e Benevento, il titolo di margravio di Spoleto, nel momento in cui l’arrivo degli Ungari costrinse l’Italia centrale e la Campania a difendersi da un nuovo nemico. E come, negli stessi anni, il re accordò un diploma di protezione ai monaci di Montecassino, allora stabilitisi a Capua, convalidando le loro pretese su beni situati in Abruzzo, a Spoleto e anche in aree dell’Italia meridionale. Ci si è chiesti se questi potevano essere segni «di un tentativo (…) per rivendicare un certo diritto di sovranità sui principati longobardi» [80] . Mi sembra un quesito corretto e mi sento non solo di rispondere positivamente ma di aggiungere che se il patto di Ugo con ‘Abd ar-Rahmân IIIc’è stato, esso certamente denunciava, come valore aggiunto, l’ambizione dello stipulante ad esercitare di fatto, se non di diritto, prerogative sovrane su un territorio più ampio di quello di competenza [81] .

Da ultimo, non resta che chiedersi: un accordo cristiano- musulmano era concepibile nella realtà politica della prima metà del X secolo?

Ebbene, la risposta, sulla base delle attuali conoscenze, è decisamente affermativa, dal momento che vi sono testimonianze relative ad accordi di questo tipo sia anteriori al nostro sia posteriori e a relazioni cristiano-musulmane così amichevoli da suscitare la disapprovazione dei contemporanei. Mi limiterò a ricordare gli esempi meno noti:

- L’ultimo governatore abasside dell’Ifriqiya, sul finire dell’VIII secolo, viveva in eccellenti rapporti con il patrizio bizantino della Sicilia, scambiava con lui regali e gli inviava, su sua richiesta, rame, ferro e armi, malgrado vi fosse, da entrambi le parti, cristiana e musulmana, il divieto a fornire all’altro merci che potessero essere utilizzate per la guerra [82] .

- Nell’813 il patrizio di Sicilia Gregorio ricevette un’ambasciata, probabilmente da parte dell’emiro idrisside del Marocco, e con essa concluse una tregua di 10 anni; ma ciò che d’importante emerge dalla fonte, una lettera di papa Leone III a Carlomagno, è la notizia che negli ultimi 85 anni vi erano state violazioni incessanti dei patti precedentemente stabiliti [83] .

- Nell’875 le città di Napoli, Gaeta, Amalfi e Salerno, il vescovo di Capua e il principe di Benevento conclusero coi saraceni di Palermo e di Kairouan un accordo che fece indignare il papa Giovanni VIII e lo indusse ad offrire agli amalfitani un compenso annuo di 10 mila mancusi d’argento se avessero receduto dalla tregua contratta. Offerta peraltro disattesa se due anni dopo egli dovette ricorrere alla minaccia di scomunica e alla costituzione in proprio di una flotta di battelli greci, chelandie e dromoni, per difendere il litorale laziale dai raids saraceni [84] . Sembra però che nell’878 egli stesso sia ricorso ai mezzi pecuniari e abbia stabilito una tregua temporanea con i musulmani dell’Andalusia prima di imbarcarsi per un viaggio in mare diretto in Francia [85] .

- Nel 906 è la madre di Ugo, la marchesa Berta di Toscana, a tentare accordi diplomatici con il califfo di Bagdad Muktafî, non riusciti a causa della morte dell’intermediario, l’eunuco Alì [86] .

- Nel 915 Zoe, che reggeva il trono di Costantinopoli per il figlio Costantino Porfirogenito, ancora in minore età, stipulò con l’emiro di Palermo un patto che le costò il versamento annuo di 22.000 bizantini d’oro in cambio della cessazione delle incursioni musulmane in Calabria e nelle Puglie [87] . Esempio che fu seguito anche successivamente da imperatori e patrizi bizantini [88] .

- Alla costruzione di Medina- Zahra, iniziata dal califfo andaluso ‘Abd ar-Rahmân IIIal-Nasir nel 936, sembra aver contribuito il malik Rumah, cioè il pontefice stesso, secondo alcuni storici, o l’imperatore bizantino, secondo altri, con l’invio di quaranta colonne di marmo regalate a titolo personale [89] . E sappiamo che il figlio e successore di al-Nasir, al-Hakam II (961-976), inviò a Niceforo Foca una delegazione incaricata di riportare in Spagna un mosaicista esperto per dirigere la decorazione di parti nuove all’interno della grande moschea di Cordova [90] .

Le testimonianze più numerose, tra quelle passate in rassegna, riguardano l’ambito bizantino-musulmano, ma sappiamo che anche alcuni sovrani europei, contemporanei di Ugo o a lui posteriori, furono costretti ad intrattenere rapporti diplomatici con i califfi omeiadi. Ci è nota, in particolare, la tribolata ambasceria che Giovanni di Gorze fece a Cordova negli anni 953-956, per incarico dell’imperatore Ottone I (936-973) [91] . Il monaco -verosimilmente- fu inviato là per ottenere la cessazione degli attacchi a viandanti e imbarcazioni cristiane da parte dei pirati-marinai di Frassineto [92] . Sfortunatamente per lui era latore di una lettera che il califfo volle conoscere anticipatamente attraverso il suo segretario Hasday [93] e giudicò offensiva per sé e per la sua religione. Il sovrano musulmano fece pertanto invitare Giovanni a desistere dal presentarla ufficialmente, minacciandolo di una lunga prigionia, ma egli rifiutò e rimase in una sorta di «domicilio coatto» fino a quando non acconsentì che il proprio sovrano, l’imperatore Ottone I, ne scrivesse una nuova e gliela facesse pervenire.

A questo scopo venne inviato in Germania il vescovo di Elvira Recemondo, che partì da Cordova nella primavera del 955 e vi ritornò con la missiva richiesta nel giugno dell’anno successivo [94] .

Solo allora Giovanni di Gorze poté essere ricevuto a corte dal califfo, in un tripudio di festeggiamenti, e portare a termine la sua ambasceria, non sappiamo con quali esiti, poiché la fonte non è stata ultimata. El Haijji scrive che il califfo probabilmente negò di poter influire sull’insediamento di Frassineto e non abbia pertanto fornito alcun lasciapassare, ma oggi, alla luce dello stesso documento relativo all’accordo di «Ugo», che ben evidenzia come il governatore di Frassineto ricevesse direttive dal potere centrale, già intorno agli anni quaranta del secolo X, escluderei nettamente una tale ipotesi. La tregua probabilmente fu concessa ma  essa non escludeva affatto iniziative private e particolari di segno contrario, tant’è che le iniziative diplomatiche per stabilire sospensioni delle ostilità si susseguivano ad intervalli talvolta veramente molto brevi.

Le fonti arabe segnalano anche l’attività diplomatica di tal Ibrahim Ibn Ya‘qub At- Turtushi, probabilmente un ebreo convertito all’Islam, andaluso di Tortosa, che viaggiò per l’Europa nella seconda metà del secolo X e incontrò sia papa Giovanni X a Roma, nel 961, sia Ottone I, a Magdeburgo, nel 965 [95] . Ritornato in Andalusia, descrisse i suoi viaggi, che possediamo tuttavia solo frammentariamente e indirettamente, per la trascrizione di alcuni brani che ne fecero alcuni geografi musulmani a lui posteriori.

Ci sono infine noti i numerosi contatti diplomatici che il califfo al-Hakam II (961-976), figlio e successore di ‘Abd ar-Rahmân III ebbe con i potentes del suo tempo, tra cui, in particolare, i signori cristiani della penisola iberica [96] :

- A fine giugno del 971 è la volta di Bon Filio, ambasciatore di Borrell, signore di Barcellona, il quale recava con sé carte che accreditavano « sentimenti di perfetta obbedienza e vassallaggio» e anche…trenta prigionieri musulmani [97] .

- Nel luglio 971 fu ricevuto a Cordova l’ambasciatore della città di Astorga, al confine con la Galizia, che informò della penetrazione nel Duero di una flottiglia di normanni; l’avvenimento determinò l’immediata mobilitazione di una squadra navale musulmana che mosse da Pechina-Almeria e si diresse a Siviglia [98] .

- Nell’agosto dello stesso anno furono accolti nel palazzo di Medina-Zahra vari altri diplomatici, tra cui quello del principe dei Baschi, di Elvira figlia di Ramiro, e tutrice di Ramiro, futuro signore di Galizia, di Fernando, nipote del conte di Salmantica, tutti secondo un rituale che appare essere particolarmente consolidato: ciascun’ambasciata dette notizia della situazione del paese di provenienza ed espresse il desiderio che la tregua esistente venisse prolungata; in cambio ricevette assicurazioni e doni [99] .

- A fine settembre si presentarono nuovamente un legato di Elvira, uno del signore di Pamplona, un altro di quello di Castiglia; per l’occasione vennero ricevuti a corte anche alcuni cristiani importanti di Cordova, tra cui il vescovo, perché facessero da interpreti: a tutti fu data risposta positiva alle loro richieste [100] .

- Nel marzo 972 arrivò a Cordova Costantino, ambasciatore dell’imperatore di Costantinopoli Tzimisci, assassino e successore di Niceforo Foca, il quale – precisa la fonte- non apparteneva alla casa reale, ma era un semplice domestico di Niceforo, che  aveva soppiantato [101] .

- Nell’agosto 974, infine, vi fu un ricevimento solenne, nell’Alcázar di Medina-Zahra, con formazioni militari dentro e fuori del palazzo, durante il quale vennero ricevuti l’ambasciatore del signore di Barcellona, garante dell’obbedienza e della rettitudine della condotta del proprio sovrano Borrell e successivamente l’inviato di Ottone II, «re dei Franchi», che presentò il suo messaggio, rinnovando il patto e riconfermando il compromesso esistente. Da ultimo, fu ricevuto l’ambasciatore del signore di Castilla [102] .

In conclusione: i califfati di ‘Abd ar-Rahmân III e di suo figlio al-Hakam II furono caratterizzati, nel corso del X secolo, da una pluralità di rapporti diplomatici con i sovrani cristiani il cui dominio era esercitato sulle sponde del Mediterraneo; ragioni pratiche oltre che politiche, determinarono la necessità di stabilire accordi e compromessi utili ad entrambe le parti, generalmente di breve durata, e incapaci di determinare con certezza la condotta delle parti contraenti.

Ugo di Arles, re d’Italia, artefice di una politica avveduta ed ambiziosa, dovette necessariamente intessere tali relazioni con il mondo musulmano, sia per garantire le migliori condizioni di sicurezza e di movimento ai propri sudditi sia per consolidare ed accrescere potere e prestigio personale. Il fatto, inoltre, che egli fosse nativo della Provenza e a questa regione restasse sempre legato da interessi personali oltre che da rapporti affettivi, ha certamente facilitato i suoi rapporti coi vicini sovrani iberici, sia cristiani sia musulmani.


Note

[1] <!--[endif]--> Cfr. R. Dozy, Histoire des musulmans d’Espagne jusqu’à la conquête de l’Andalousie par les Almoravides, nuova edizione, rivista ed aggiornata da E. Lévi Provencal, 3 voll., Leyde 1932, t. II, vol. III, p. 159; lo storico cita come fonte l’opera di al-Kairawani, Histoire de l’Afrique, nella trad. di Pellissier e Rémusat, p. 104, che purtroppo non sono riuscita a trovare. Per l’attacco a Genova visto da parte araba cfr. M. Amari, Biblioteca arabo-sicula, rist. dell’edizione di Torino 1880-1881, Arnaldo Forni Editore, Sala Bolognese 1982, I, pp. 284, 358, 412; II, pp. 29, 88, 128, 161, 167, 191, 706, e Histoire de l’Afrique et de l’Espagne intitulée Al-Bayano’l-Mogrib, ed. par E. Fagnan, Alger 1901-1904, I, p. 277; da parte cristiana cfr. Liudprandi Cremonensis, Antapodosis, a cura di P. Chiesa, Turnhout, Brepols, 1998 (Corpus Christianorum, Continuatio Mediaevalis, CLVI), (d’ora in poi Liutprando) IV, 5, p. 98; è da notare che le fonti arabe riferiscono due attacchi successivi, mentre quelle cristiane ne registrano uno soltanto. Per un’analisi accurata degli avvenimenti alla luce di una fonte araba ricca di particolari sulla vicenda e per la bibliografia più recente v. B. Z. Kedar, Una nuova fonte per l’incursione musulmana del 934-935 e le sue implicazioni per la storia genovese, in Oriente e Occidente tra Medioevo ed Età Moderna. Studi in onore di Geo Pistarino, a cura di L. Balletto, Genova 1997, pp. 605-616.

[2] <!--[endif]--> A. A. El-Haijji, Relazioni diplomatiche dell’Andalusia con l’Italia durante il periodo degli Umayyadi (138-366 dell’Egira/755-976 d. C. ), «Rivista Storica Italiana», LXXIX (1967), 1, pp. 158-173. Dello stesso autore è l’ampia trattazione Andalusian Diplomatic relations with Western Europe during the Umayyad Period (AH 138-166/AD 755-976), Beirut 1970, in cui l’autore ripropone l’opinione già espressa nell’articolo: ivi, pp. 284-286.

[3] <!--[endif]--> Liudprando, V, 17.

[4] <!--[endif]--> Sull’insediamento di Frassineto cfr. lo stesso El- Haijji, Andalusian Diplomatic relations, cit. , pp.  209-219 e, l’utile sintesi e l’accurata rassegna bibliografica presenti in P. Senac, Musulmans et sarrasins dans le Sud de la Gaule du VIII au Xie siècle, Paris 1980, pp. 41-47: l’autore utilizza infatti ogni tipo di fonte e ricostruisce per quell’area una situazione ambientale assai diversa dall’attuale, con il mare che penetrava assai più profondamente di oggi nelle valli e il Massiccio dei Mori che appariva pressoché insulare, come del resto le carte arabe lo rappresentano. Da ultimo, del medesimo autore, v. Le califat de Cordoue et la Méditerranée occidentale au Xe siècle: le Fraxinet des Maures, in «Castrum 7. Zones côtières littorales dans le monde méditerranéen au Moyen  Age: défense, peuplement, mise en valeur », Actes du colloque international , Rome, 23-26 octobre 1996, éd. par Jean-Marie Martin, Collection de l’École française de Rome, 105/7, Collection de La Casa de Velázquez, 76, Rome-Madrid 2001, pp.113-126.

[5] <!--[endif]--> Ricostruzioni interessanti al riguardo sono presenti inP. Guichard, Les débuts de la piraterie andalouse en Méditerranée occidentale (798-813), «Revue de l’Occident Musulman et de la Méditerranée», 35, 1983/1, pp. 55-75 e in C. Picard, La mer et les musulmans d’Occident au Moyen Age (VIIIe-XIIIe siècle), Paris 1997, pp. 11-17.

[6] <!--[endif]--> Si tratta in realtà di un cronista del XIV secolo che ha utilizzato, come solitamente avveniva tra gli storici musulmani, fonti anteriori: al–Himyarî, La Pèninsule ibérique au Moyen Age d’après le «Kitâb al –Rawd al Mi‘târ».  Texte arabe des notices relatives à l’Espagne, au Portugal et au Sud-Ouest de la France, testo e trad. E. Lévi Provençal, Leyde 1938; n. ed. I. ‘Abbas, Beirut 1975. 

[7] <!--[endif]--> Liutprando, I, 2, 3; qui adotto la traduzione italiana di Pierangelo Ariatta tratta dal vol. Liutprando di Cremona, Italia e Bisanzio alle soglie dell’anno mille, a cura di M. Oldoni e P. Ariatta, Novara 1987, pp. 42-43.

[8] <!--[endif]--> Liutprando, IV, 1.

[9] <!--[endif]--> Cfr. ad es. Ekkeardi IV, Casus S. Galli, in M. G. H , Scriptores, II, ed. G. H. Pertz, Hannoverae 1829, 3, pp. 110-111: «In valle Fraxnith, angustiis tutissima (…) erumpunt saraceni e valle Fraxnith confertissimi».

[10] <!--[endif]--> Un quadro sintetico per la Spagna è stato tratteggiato da S. Martínez Lillo, La arqueologia y el mar, in Al-Andalus y el Mediterráneo, Catalogo de la Exposición “El Legado Andalusi”, Sierra Nevada 1995, pp. 215-226. I ritrovamenti sono avvenuti davanti alla costa di Almeria (solo materiale ceramico databile alla seconda metà del sec. XIV), in prossimità dell’isola di Ibiza (materiale ceramico che testimonia i contatti fra l’isola e i centri più importanti del Maghreb in epoca almohade, oltrechè con varie città della penisola iberica come Denia, Alicante, Valenza e Murcia), nel mare  antistante Alicante (una nave databile alla metà del sec. VI), Gerona (una nave datata prima alla fine del sec. XIII e successivamente ai primi decenni del sec. XIV), e nelle acque della baia di Cadice (località S. Pietro), dove sono state ritrovate notevoli quantità di materiale ceramico in contesti databili dal IX al XIII secolo, i quali sembrano evidenziare che sotto le dinastie omeiadi e berbere Al-Andalus e il Maghreb erano parti separate del medesimo ambito culturale. Per i ritrovamenti di Agay e Batéguier, sulle coste provenzali, la bibliografia è un po’ più ricca: A. Visquis, Premier inventaire du mobilier de l’épave des jarres d’Agay, «Cahiers d’Archéologie Subaquatique», 2, 1973, pp. 157-167; J. P. Joncheray, Le navire du Batéguier, un’épave du haut Moyen Age «Archéologia», agosto 1975, pp. 42-48; G. Vindry, Présentation  de l’épave arabe du Batéguier (baie de Cannes, Provence Orientale), in La céramique médiévale en Méditerranée occidentale. Xe-XVe siècles, Valbonne 11-14. IX. 1978, Paris, Editions du CNRS, 1980, pp. 221-226; P. Pomey et alii, Recherches archéologiques sous-marines, «Gallia-Information», 1987-1988, I, pp. 49-50; D. Brentchalof , Ph. Sénac, Notes sur l’épave sarrasine de la Rade d’Agay (pointe Batéguier. Chroniques de fouilles, «Archéologie Médiévale», XXIV (1994), pp. 564 e ss. Un terzo ritrovamento, pertinente a una nave saracena datata al X secolo, è avvenuto ad est di Marsiglia, ma ha fornito informazioni importanti soprattutto in ordine al carico rinvenuto, un insieme di oggetti metallici: S. Ximenes et alii, Étude préliminaire de l’épave sarrasine du Rocher de l’Estéou, «Cahiers d’archéologie subaquatique», V (1976), pp. 139-150.
Per un primo approccio al tema della navigazione medievale cfr. M. Tangheroni-L. Galoppini, Navigare nel Medioevo, «Storia e Dossier», 27, marzo 1989, pp. 16-23. Una panoramica esauriente sulle imbarcazioni medievali, bizantine ed islamiche in particolare, è presente sia in M. Tangheroni, Commercio e navigazione nel Medioevo, Bari 1996, pp. 49-58, sia in Picard, La mer et les musulmans, cit. , pp. 110-119, sia in Idem, L’océan Atlantique musulman.  De la conquête arabe à l’èpoque almohade. Navigation et mise en valeur des côtes d’al-Andalus et du Maghreb occidental (Portugal-Espagne-Maroc), Paris 1997, pp.  296-309. 

[11] <!--[endif]--> Picard, La mer et les musulmans, cit. , p. 11, con i relativi riferimenti bibliografici.  Quando si trovano testimonianze relative a scontri in mare tra navi cristiane e navi musulmane le fonti generalmente riferiscono di piccole flottiglie costituite da tre o quattro navi per parte, con circa cinquanta membri di equipaggio ciascuna; mi permetto di rinviare a C.  Renzi Rizzo, Riflessioni sulla lettera di Berta di Toscana al califfo Muktafi, «Archivio Storico Italiano», (CLIX), 2001, n. 587/1, pp. 5,  24-26.

[12] <!--[endif]--> Guichard, Les débuts de la piraterie andalouse, cit. , pp. 60-66.

[13] <!--[endif]--> M. Amari, Storia dei Musulmani di Sicilia, 2a edizione mod. ed accr. dall’autore, con note a cura di C. A. Mallino, Catania 1933, pp. 284 e ss.

[14] <!--[endif]--> Per tutto questo, cfr. Picard, La mer et les musulmans, cit, pp. 11-25: la tesi è scaturita da una migliore conoscenza delle fonti arabe e di Al–Himyarî in particolare; così egli descrive la vita nella città di Pechina (traduco liberamente dal francese):«La città costituì per coloro che vennero ad installarvisi o a rifugiarvisi, una residenza piacevole e un asilo sicuro. Vi s’importavano dall’Africa del Nord le derrate necessarie al suo approvvigionamento e le merci oggetto dei traffici e questa fu una delle ragioni che motivarono la venuta e l’installazione nel luogo di nuovi abitanti. Così, assai presto, numerosi quartieri furono costruiti tutt’intorno alla città». Sulla natura dei ribat e sulle loro funzioni v. M. de Epalza, La costa Mediterranea como frontera militarizada del Islam, in Al-Andalus y el Mediterráneo, cit. , pp. 57-65.

[15] <!--[endif]--> Secondo la Fasoli, I re, cit, pp. 147-148, l’assedio di Frassineto si verificò tra l’inverno e la primavera del 942, e cessò certamente prima del maggio di quell’anno; secondo il Mor, invece, Ugo potè intraprendere la spedizione antisaracena  soltanto nell’autunno di quell’anno: C. G. Mor, L’età feudale, in Storia politica d’Italia, Vallardi, Milano 1952, I, p. 153. Non ho purtroppo elementi ulteriori per dirimere la questione; Flodoardo, che pure riporta l’assedio, è estremamente conciso: «Idem vero rex Hugo Sarracenos de Fraxinido eorum munitione disperdere conabatur»: Flodoardi, Annales, in M. G. H , Scriptores, III, ed. G. H. Pertz, Hannoverae 1839, p. 389.

[16] <!--[endif]--> Già nel 931 infatti una flotta bizantina aveva inseguito una squadra di pirati saraceni fino al covo di Frassineto, senza però ottenere risultati soddisfacenti: S. Runciman, Romanus Lecapenus and his Reign, Cambridge 1929, p. 194; la notizia è in Flodoardi, Annales, cit. , p. 379: «Graeci sarracenos per mare insequentes usque in Fraxinidum saltum, ubi erat refugium ipsorum, et unde egredientes Italiam sedulis praedabantur incursibus, Alpibus eciam occupatis, celeri Deo propitio internetione proterunt, quietam reddentes Alpibus Italiam». 

[17] <!--[endif]--> Cfr. Mor, L’età feudale, cit. , p. 151: la fonte è ancora Flodoardi, Annales, cit. , a. 940, p. 387.

[18] <!--[endif]--> A. Rambaud, L’empire grec au Xe siècle: Constantin Porphirogénète, Paris 1870, pp. 310-311.

[19] <!--[endif]--> Runciman, Romanus Lecapenus, cit. , p. 193; cfr. anche Liutprando, Legatio, 7.

[20] <!--[endif]--> Sulla madre di Ugo cfr.  Renzi Rizzo, Riflessioni sulla lettera di Berta, cit.; sulla bella nipote cfr. Runciman, Romanus Lecapenus, cit. , p. 196 con i relativi riferimenti alle fonti bizantine e Mor, L’età feudale, cit, pp. 152-154. In Georgii Cedreni, Compendium Historiarum, Migne, Patrologia Graeca, 121 (1. 2), Turnholti 1982, la vicenda è nel II vol., p. 319: Ugo peraltro vi è definito «re di Francia».

[21] <!--[endif]--> Secondo le ricerche più recenti l’area occupata dai saraceni era molto più vasta di quanto si sia fino ad oggi creduto, e trovava i suoi limiti naturali nei lembi estremi del Massiccio dei Mori: Senac, Musulmans, cit. , p. 47.

[22] <!--[endif]--> Liutprando V, 16-17, che ho tradotto liberamente dal latino.

[23] <!--[endif]--> Runciman, per la verità, sembra alimentare qualche incertezza interpretativa (Romanus Lecapenus. cit. , p. 195): «le navi bizantine di stanza al Garigliano si portarono tutte di fronte a loro (=i nemici?) e le navi con gli italiani erano pronte ad assalire il luogo abitato».

[24] <!--[endif]--> Liutprando, III, 16.

[25] <!--[endif]--> Maragone, Annales Pisani in Rerum Italicarum Scriptores, VI/2, a cura di M. Lupo gentile, Bologna 1936, p. 4.

[26] <!--[endif]--> Liutprando, V, 17; per una disamina articolata degli avvenimenti v. Mor, L’età feudale, cit. , pp. 152-153.

[27] <!--[endif]--> Liutprando echeggia il Salmo 68, 29 (secondo la numerazione ebraica).

[28] <!--[endif]--> Cfr. testo corrispondente alla nt. 2.

[29] <!--[endif]--> Liutprando, I, 2.

[30] <!--[endif]--> P. Guichard, Animation maritime  et développement urbain des cotes de l’Espagne orientale et du Languedoc au Xème siècle, «Occident et Orient au Xe siècle», Actes du IXe Congrès de la Société des historiens médiévistes de l’enseignements supérieur public (Dijon 2-4 juin 1978), Paris 1979, pp. 187-201.

[31] <!--[endif]--> Cfr. Encyclopédie de l’Islam, n. é. par B. Lewis, V. L. Ménage, Ch. Pellat et J. Schacht, III, Leiden-Paris 1968, alla v. Ibn Hayyân, compilata da A. Huici Miranda, , pp. 812-813.

[32] <!--[endif]--> Ibn Hayyân (XI s. ), Kitâb al- Muqtabis fî ta’rîkh rijâl al-Andalus: (V) Regno di ‘Abd ar-Rahmân III: Crónica del califa ‘Abd ar-Rahmân III an-Nâsir entre los años  912-942, éd. a cura di P. Chalmeta, F. Corriente, Madrid, 1979, che ha avuto una ed. sp., dallo stesso titolo, a cura di M. J. Viguera y F. Corriente, preliminar por J. M. Lacarra, Zaragoza 1981.

[33] <!--[endif]--> P. Chalmeta, La Méditerranée occidentale et Al-Andalus de 934 à 941: les données d’Ibn Hayyân, «Rivista degli Studi Orientali», L (1976), pp. 337-351. Come dichiara l’autore l’articolo riprese in parte la comunicazione presentata al II Congresso di Studi delle Culture del Mediterraneo Occidentale, tenutosi a Barcellona nel settembre-ottobre 1975.

[34] <!--[endif]--> La denominazione muluk (sing. malik ) indica i re, come mi è stato confermato da due amiche, che qui ringrazio, per questo ed altri preziosi suggerimenti: Clelia Cerqua Sarnelli e Maria Vittoria Fontana.

[35] <!--[endif]--> Chalmeta, La Méditerranée occidentale, cit. , p. 345. L’ipotesi non venne messa in discussione da Viguera e Corriente nell’edizione spagnola della fonte: Crónica del califa, cit. , pp. 341 e ss. Interpellato da me epistolarmente, il prof. Pedro Chalmeta mi ha gentilmente confermato la validità ancora attuale della sua identificazione e per questo lo ringrazio vivamente.

[36] <!--[endif]--> L’identificazione fu proposta in forma dubitativa nella relazione del 1978 di Guichard, Animations maritime, cit. , ma la bibliografia più recente sembra prenderne atto con maggiore convinzione: M. Balard, A. Demurger, P.  Guichard, Pays d’Islam et monde latin.  Xe-Xe siècle, Paris 2000, p. 26 (traduco dal francese): «Un suo inviato (di Abd-er-Rahman III), un celebre medico ebreo, Hasdây b. Ishâq, conosciuto per la sua partecipazione alla traduzione del De materia medica di Dioscoride, concluse la pace con il conte di Barcellona Sunyer (914-950), come, sembra, con Ugo di Provenza, re d’Italia dal 926 al 947»; P. Guichard, Ph. Sénac, Les relations des pays d’Islam avec le monde latin. Milieu Xe-milieu XIIIe, CNED-SEDES, Saint-Just-La-Pendue 2000, p.  32 (traduco dal francese): «Questi legami (tra il califfato di Cordova e il mondo latino) debuttarono nel 940 allorché più sovrani cristiani vollero associarsi all’accordo stabilito con il conte Sunyer di Barcellona, tra i quali il re d’Italia Ugo di Arles, desideroso di ottenere un salvacondotto per i commercianti del suo paese che negoziavano con la penisola»; R. Fossier, Les relations des pays d’Islam avec le monde latin. Du milieu du Xe siècle au milieu du XIIIe siècle, Paris 2000, p. 46 (traduco dal francese): «Dei salvacondotti sono rilasciati ai più audaci dei mercanti cristiani come quelli che Ugo di Provenza, re d’Italia, inviò al Levante verso il 950 e a Cordova»; J. P. Arrignon, C. Bousquet-Laborie, B. Leroy, Pays d’Islam et monde latin (milieu Xe siècle-milieu XIIIe siècle), Paris 2001, pp. 8-9 (traduco dal francese): «(…) Abd-er-Rahman III impose la sua legge dalla Catalogna alla Provenza ( ad Ugo di Arles come ai saraceni di Frassineto) pesando sulle alleanze politiche come sulle decisioni economiche»;

[37] <!--[endif]--> Traduco liberamente dal testo francese presentato in Chalmeta, La Méditerranée occidentale, cit. , pp. 339-342, rendendo meno precisa la trascrizione fonetica dei nomi ma più vicina alle grafie occidentali: di questo, ovviamente, chiedo scusa agli eventuali lettori di lingua araba; integro, là dove è possibile essere più precisi, con la corrispondente versione spagnola curata da Viguera e Corriente, pp. 341-343; essa comunque si attiene all’edizione araba della fonte curata nel 1979 dallo stesso Chalmeta insieme a Corriente: cfr. testo corrispondente alla nt. 32. L’accordo è stato  ripreso in considerazione in anni recenti da Ph.  Sénac, Note sur les relations diplomatiques entre les comtes de Barcelone et le califat de Cordoue au Xe siècle, in Histoire et archéologie des terres catalanes au Moyen Âge, Perpignan 1995, pp. 87-101, ora anche in Les relations des pays d’Islam avec le monde latin du milieu du Xe siècle au milieu du XIIIe siècle, articles réunis par F. Micheau, Paris 2000, pp. 116-135, a cui rinvio per la bibliografia che non sono riuscita a rintracciare. Il saggio sottolinea che l’iniziativa diplomatica, la prima tra i conti di Barcellona e il califfo di Cordova, fu appannaggio del sovrano omeiade ed ebbe l’appoggio della squadra navale la quale, partita da Almeria, raggiunse Barcellona contemporaneamente all’ambasciatore musulmano.

[38] <!--[endif]--> La sovrana è da identificarsi, probabilmente, con la contessa Riquilde, figlia del conte Borrell e sposa di Oddone di Narbona: cfr. Viguera e Corriente, Cronica, cit. , p. 342, nt. 6; cfr. anche Sènac, Les relations, cit. , p. 119.

[39] <!--[endif]--> Si tratta di Gotmar, abate del monastero di Sant Cugat del Vallès, vescovo di Gerona e ambasciatore per Sunyer presso Luigi IV di Francia nel 939 e nel 944, autore, per il principe ereditario al-Hakam, di una cronaca dei re franchi: Viguera e Corriente, Cronica, cit. , p. 340, nt. 7;  sul personaggio cfr. anche Sénac, Les relations, cit. , pp. 119-120, nt. 10.

[40] <!--[endif]--> Sull’argomento v. M. Aurell, Les noces du comte  Mariage et pouvoir en Catalogne (785-1213), Paris 1995, p. 61.

[41] <!--[endif]--> Nell’Encyclopédie de l’Islam, cit. , t. I, Leiden-Paris 1954, p.  441, alla v. amân è scritto ( traduco dal francese) : « nel diritto religioso musulmano è un salva-condotto, o promessa di protezione grazie al quale un (…) nemico straniero, cioè un non musulmano (…) è protetto dalle sanzioni della legge, in ordine alla sua vita e ai suoi beni per un periodo di tempo limitato». Esso può essere accordato a gruppi di persone come la popolazione di una città o di un territorio intero.  Sul valore da attribuire alle convenzioni con il nemico è interessante la lettura di alcune fatwas o sentenze: E. Amar, La pierre de touche des fatwas, «Archives Marocaines», XII (1908), pp. 218-228.

[42] <!--[endif]--> Chalmeta, La Méditerranée occidentale, cit. , p. 341.

[43] <!--[endif]--> Ivi, pp. 341-342. Ritornare su questo passo della fonte mi consente di correggere quanto erroneamente scritto altrove e di chiederne venia: Renzi Rizzo, Riflessioni sulla lettera di Berta, cit. , p. 31. Sulla eccezionale qualità dei tessuti di lino prodotti a Napoli nel X secolo v. la testimonianza di Ibn Hawqal riportata in Amari, Biblioteca, cit. , I, p. 25.

[44] <!--[endif]--> Chalmeta, La Méditerranée occidentale, cit. , p. 342.

[45] <!--[endif]--> U. Schwarz, Amalfi nell’alto medioevo, Salerno- Roma 1980, pp. 67-71.

[46] <!--[endif]--> Chalmeta lo identifica con il giudice cagliaritano Bono (Chalmeta, La Méditerranée occidentale, cit. , p.  346, nt. 15): confesso di non conoscere la fonte da cui è stata tratta l’informazione.

[47] <!--[endif]--> Cfr. Encyclopédie de l’Islam, cit. , III, alla voce Hasday, curata da M. Perlmann, p. 266. Dozy riporta che Giovanni di Gorze, ambasciatore di Ottone I alla corte di Cordova negli anni 953-956 -su cui avremo modo di ritornare più tardi-, ebbe a dire di lui che non aveva mai conosciuto un uomo dotato di tanta finezza: Idem, Histoire des musulmans d’Espagne, cit. , p. 169.

[48] <!--[endif]--> Sull’interpretazione da dare ai rapporti tra i conti catalani e i califfi omeiadi nel corso del X secolo non vi è identità di vedute tra gli storici: per uno sguardo di sintesi sulla quaestio v. Sénac, Les relations, cit. , pp. 128-135.

[49] <!--[endif]--> L’editore adotta l’anno a cavallo tra il 934 e il 935: Chalmeta, La Méditerranée, cit. , pp. 338, 345.  Le corrispondenze giorno della settimana, mese e anno, suggerirebbero in realtà la data cristiana 936: Cappelli, Cronologia, cit. , pp. 50-51, 66-67, 88-89. Ph.Sénac, Le califat de Cordoue, cit., p.121, riferisce gli avvenimenti all’anno 935.

[50] <!--[endif]--> Chalmeta, La Méditerranée, cit. , pp. 338-339.

[51] <!--[endif]--> R.  D’Abadal, Els Primers Comtes Catalans, Historia de Catalunya. Biografies catalanes, 1, III, Barcellona 1980, p. 328.

[52] <!--[endif]--> P.  Guichard, Animation maritime, cit. , p. 195.

[53] <!--[endif]--> Sull’organizzazione marittima durante il califfato omeiade utili informazioni in Picard, La mer et les musulmans, cit. , pp. 25-29.

[54] <!--[endif]--> A. Luya, La Risala d’as-Sakundi, « Hespéris Tamuda», (22), 1936, pp. 174-175. La fonte è stata composta tra il 1196 e il 1212, sembra comunque interessante segnalare l’opera di razionalizzazione dei servizi legati alle attività marittimo-commerciali dei cristiani in Andalusia, ottenuta concentrando in un’unica città tutti i differenti servizi doganali, in quanto questo comportava, come il cronista appunto sottolinea, l’afflusso nel medesimo centro di tutte le merci in arrivo e in partenza e quindi la trasformazione di fatto della città in un emporio redistributivo, cosa che è bene tener presente quando si cerca di individuare le provenienze di merci specifiche. Sull’argomento cfr. anche S.  Gibert de VallvÉ, La ville d’Alméria à l’epoque musulmane, «Cahiers de Tunisie », (18), 1970, pp. 61-72.

[55] <!--[endif]--> Per un breve quadro di sintesi e per la bibliografia mi permetto di rinviare a C.  Renzi Rizzo, I Rapporti Pisa-Spagna (Al-Andalus, Maiorca) tra l'VIII e il XIII secolo testimoniati dalle fonti scritte, Atti del XXXI Convegno Internazionale della Ceramica su Penisola iberica e Italia: rapporti e influenze nella produzione ceramica dal medioevo al XVII secolo, Albisola, 29-31 maggio 1998, Firenze 1999, pp. 255-264.

[56] <!--[endif]--> Broccati e argento erano merci disponibili in area napoletana, nella prima metà del X secolo: nel 928 una spedizione musulmana partì dalle coste siciliane e si diresse contro il continente cristiano e Salerno, a detta della fonte araba, che è Ibn Idârî, acquistò la pace a prezzo d’argento e di broccati, e Napoli, di argento e vesti : Histoire de l’Afrique et de l’Espagne intitulée Al-Bayano’l – Mogrib, ed. cit. , I, p. 277. La notizia è riportata anche in Amari, Biblioteca, cit. , II, p. 28.

[57] <!--[endif]--> A. O. Citarella, Merchants, markets and merchandise in Southern Italy in the High Middle Ages, Settimane di Studio del Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo su Mercati e mercanti nell’Alto Medioevo: l’area eurasiatica e l’area mediterranea, 23-29 aprile 1992, Spoleto 1993, pp. 257-282.

[58] <!--[endif]--> M. Tangheroni, La città dell’argento. Iglesias dalle origini alla fine del Medioevo, con un’appendice di C. Giorgioni Mercuriali, Napoli 1985, pp. 64-67; Idem, Le miniere nell’età medievale, in Le miniere e i minatori della Sardegna, a cura di F. Manconi, Cagliari 1986, pp. 19-24; Idem, Dall’estrazione del minerale alla lavorazione delle monete ad Iglesias nel Medioevo: le fonti, in La miniera l’uomo e l’ambiente. Fonti e Metodi a confronto per la storia delle attività minerarie e metallurgiche in Italia, Convegno di Studi, Cassino, 2-4 giugno 1994, Firenze 1996, pp. 93-102.

[59] <!--[endif]--> Leggo in una tesi, che mi è stata gentilmente segnalata dall’amico Marco Tangheroni (e per questo, e non solo per questo sinceramente lo ringrazio), che l’espressione «signore dell’isola» è stata interpretata come una possibile allusione ad Ugo di Provenza: al momento mi sembra un’ipotesi tutta da dimostrare; per questo v. St. Hattermann, La Sardaigne et la Méditerranée, VIIIe-Xe siècle, Mémoire de Maîtrise, Histoire Médiévale, sous la direction de Philippe Sénac, Università de Poitiers, 2001, pp. 59-60.

[60] <!--[endif]--> Sul valore giuridico del termine arcon v. C. Bellieni, La terminologia giuridica medioevale sarda, in Studi storici in onore di F. Loddo-Canepa, Firenze 1959, I, pp. 17-63.

[61] <!--[endif]--> Mor, L’età feudale, cit. , pp. 224-225; A. Guillou, La lunga età bizantina. Politica ed economia, in Storia dei Sardi e della Sardegna, I, Dalle origini alla fine dell’età bizantina, a cura di M. Guidetti, Milano 1988, pp. 333-334, 347-48. 

[62] <!--[endif]--> Amari, Biblioteca, cit. , I, p. 358; II, p. 4.

[63] <!--[endif]--> Ivi, I, pp. 193, 273-274, 356-357, 361; II, p. 704.

[64] <!--[endif]--> Ph. Gourdin è dell’opinione che la djiziya imposta ai sardi negli anni 752-753 non sia l’imposta di capitazione che comunemente veniva assegnata alle comunità di cristiani o di altri gruppi all’interno di uno stato musulmano ma proprio il tributo imposto ai popoli periferici sottomessi; essa, quindi, testimonia, per lo storico, la dominazione musulmana sull’isola, a partire da quella data, ma una «dominazione» che «non si tradusse mai in una conquista né nella creazione di un emirato o di una provincia» (la traduzione è di chi scrive): Ph. Gourdin, Les relations entre la Sardaigne et le Maghreb au moyen âge, in Archéologie et histoire de la Sardaigne Médiévale: actualité de la recherche. Actes de la table ronde de Rome, 14 et 15 novembre 1997, réunis par Jean-Michel Poisson, «Mélanges de l’école française de Rome, Moyen âge», 113 (2001), 1, pp.129-147.

[65] <!--[endif]--> G. Oman, Vestiges arabes en Sardaigne, in Actes du II Congrès International d’études nord-africaines, Aix-en-Provence, 27-29-novembre 1968, «Revue de l’Occident Musulman et de la Méditerranée», 1970, numéro spécial, pp. 175-184.

[66] <!--[endif]--> Amari, Biblioteca, cit. , pp. riportate nel testo corrispondente alla nt. 1; Kedar, Una nuova fonte, cit. , pp. 607-608. Da notare che Ibn al-Athîr, Kaldûn e al-Dhahabi segnalano anche un attacco alla Corsica, con conseguente distruzione della flotta locale.

[67] <!--[endif]--> Ivi, I, pp.  402-403.

[68] <!--[endif]--> Sul cosiddetto “isolamento” della Sardegna in alcuni periodi della sua storia, Marco Tangheroni, più di vent’anni fa, tracciò lo status quaestionis: Lunghi secoli di isolamento? Note sulla storiografia sarda negli ultimi trent’anni, «Nuova Rivista Storica», 61 (1977), pp. 150-181. Per un quadro storiografico più attuale, oltre ai lavori già citati, v. : J. Day, La Sardegna e i suoi dominatori dal secolo XI al secolo XIV, in Storia d' Italia diretta da G. Galasso, X, UTET, Torino, 1984, pp. 3 e ss; G. Meloni, La Sardegna nel quadro della politica mediterranea di Pisa, Genova, Aragona, in Storia dei Sardi e della Sardegna, II, Il Medioevo. Dai Giudicati agli Aragonesi, a cura di M. Guidetti, Milano, 1988, pp. 49 e ss; L. Galoppini, La Sardegna giudicale e catalano-aragonese, in Storia della Sardegna, a cura di M. Brigaglia, Villanova Monteleone (SS) 1995, pp. 131-168; e, da ultimo: M. E. Cadeddu, Sardegna fra lunga durata e «histoire événementielle»: la suggestione dell’immobilità, la levità degli accadimenti: Viaggiatori, geografi, annalisti, in Archéologie et histoire de la Sardigne médiévale, cit. , pp. 41-56.

[69] <!--[endif]--> Sui dati più recenti apportati dall’archeologia isolana v. D. Rovina, Insediamenti rurali tra antichità e medioevo: il sito di Santa Filitica, in Archéologie et histoire de la Sardaigne médiévale, cit. , pp. 9-26.

[70] <!--[endif]--> Cfr.  Cappelli, Cronologia, cit. , pp. 50-51 per l’a. 940; pp. 82-83 per l’a 939.

[71] <!--[endif]--> Ivi, pp.  74-75 per l’a 942; pp.  90-91 per l’a 941.

[72] <!--[endif]--> Chalmeta, La Méditerranée occidentale, cit. , pp. 337, 345; cfr. anche l’ Encyclopédie de l’Islam, cit, III, Leiden-Paris 1968, alla v. Ibn Hayyân, pp. 812-813.

[73] <!--[endif]--> Ivi, alla v. Ibn Hawqal, pp. 810-811.

[74] <!--[endif]--> Amari, Biblioteca, cit. , I, pp. 24-25.

[75] <!--[endif]--> J.  Gay, L’Italie méridionale et l’empire byzantin depuis l’avènement de Basile I jusq’à la prise de Bari par les Normands (867-1071), Paris 1904, pp. 225-226.

[76] <!--[endif]--> Mor evidenzia come egli, intorno agli anni 934-935, si fosse privato dei diritti pubblici in precedenza esercitati sulla Provenza, in favore di Rodolfo di Borgogna, ma non avesse in realtà mai abbandonato le ambizioni di esercitare potere su quelle terre cui sentiva di appartenere: Mor, L’età feudale, cit. , pp. 138-139, 147-149, 157. 

[77] <!--[endif]-->   Per la bibliografia di riferimento cfr. testo corrispondente alla nt. 1.

[78] <!--[endif]--> Cfr.  Mor, L’età feudale, cit. , p. 145.

[79] <!--[endif]--> Gay, L’Italie méridionale, cit. , pp. 240-251.

[80] <!--[endif]--> Ivi, p. 233.

[81] <!--[endif]--> Per alcuni caratteri del regno di Ugo in ordine all’organizzazione politico-amministrativa del ducato lucchese-toscano prima, di tutto il regno italico successivamente, è ancora molto valida l’analisi, pur schematica, effettuata in H. Keller, La Marca di Tuscia fino all’anno Mille, in Atti del V Congresso Internazionale di Studi sull’alto Medioevo (Lucca 3-7 ottobre 1971), Spoleto 1973, pp. 117-136.

[82] <!--[endif]--> M. Talbi, L’émirat aghlabide (184-296/800-909)  Histoire politique, Paris 1966, pp.  396-398.

[83] <!--[endif]--> Ivi, pp.  395-396.

[84] <!--[endif]--> Cfr.  Ivi, pp. 513-517 ; G. Jehel, L’Italia e il Maghreb au Moyen Age. Conflits et échanges du VIIe au XVe siècle, Paris 2001, p. 27.

[85] <!--[endif]--> Amari, Storia dei Musulmani, cit. , I, p. 593; Haijji, Relazioni diplomatiche dell’Andalusia, cit. , p. 159. Talbi, L’émirat aghlabide, cit. , p. 516.

[86] <!--[endif]--> Renzi Rizzo, Riflessioni sulla lettera di Berta, cit.

[87] <!--[endif]--> R. Panetta, I Saraceni in Italia, Milano 1998, p. 168

[88] <!--[endif]--> Ivi, pp. 169-170. Un’ambasciata a Cordova da parte dell’imperatore di Costantinopoli è segnalata nell’anno 947 anche da A. I. M. Al-Makkarí, The History of the Mohammedan Dynasties in Spain, trad. by P. de Gayangos, London 1840, II, pp. 137-138.

[89] <!--[endif]--> Segue la prima identificazione El Haijji, Relazioni diplomatiche dell’Andalusia, cit. , pp. 161-162; Idem, Andalusian Diplomatic Relations, cit. ,pp. 286-288. Secondo Al-Makkarí, The History, cit. , I, pp. 234-236, delle colonne utilizzate nell’erezione del palazzo alcune vennero da Roma, diciannove dalla terra dei Franchi, (e in nota si indica come probabile provenienza la città di Narbonne), centoquaranta furono fornite dall’imperatore bizantino, mille e tredici, per lo più di marmo verde e rosa, furono fatte venire da Cartagine, Tunisi, Sfax e altri luoghi dell’Africa; le rimanenti da località andaluse, Tarragona e Almeria, specialmente. 

[90] <!--[endif]--> E.  Lévi Provençal, Un échange d’ambassade entre Cordone et Byzance au IXe siècle ,«Byzantion», 12 (1937), pp. 1-2. 

[91] <!--[endif]--> Vita Iohannis Abbatis Gorziensis, in MGH, Scriptores, IV, ed. G. H. Pertz, Hannoverae 1841, rist.  anast. 1963, pp. 335-377.

[92] <!--[endif]--> E’ questa l’opinione di El Haijji, Andalusian Diplomatic Relations, cit. ,pp. 207-218. 

[93] <!--[endif]--> Sul personaggio, cfr. testo corrispondente alla nt.  47.

[94] <!--[endif]--> Per tutto questo v. El Haijji, Andalusian Diplomatic Relations, cit. , pp. 218-220.

[95] <!--[endif]--> Ivi, pp.  228-271.

[96] <!--[endif]--> Sui rapporti coi conti di Barcellona, da ultimo v. Sénac, Note sur les relations, cit. , pp. 123-135.

[97] <!--[endif]--> Anales Palatinos del Califa de Cordoba Al-Hakam II, por ‘Isa Ibn Ahmad Al-Razi (360-364 H. =971-975 J. C. ), trad. por E. Garcia Gomez, Madrid 1967, pp. 44-46.

[98] <!--[endif]--> Anales Palatinos, cit. , pp. 50-51.

[99] <!--[endif]--> Ivi, pp. 75-76.

[100] <!--[endif]--> Ivi, p. 80.

[101] <!--[endif]--> Ivi, pp. 93-94.

[102] <!--[endif]--> Ivi, pp. 221-222.