Istinto, emozione, conoscenza. La centralità dell’esperienza emozionale fra ontogenesi e filogenesi
Abstract
È possibile allenare la mente a tollerare l’impatto frequente, più o meno quotidiano, con quegli eventi stressanti che la rendono vigile e concentrata, sottraendola al clima ovattato in cui predilige rifugiarsi? Soprattutto, è possibile farlo, evitando di spremerla e di disperderne le energie e senza pregiudicare il suo bisogno di ricaricarsi e rigenerarsi? Ovviamente, la risposta a questa domanda chiama in causa le responsabilità dell’ambiente educante. Nel “lontano” 1971, un filosofo ungherese di origini ebraiche, Arthur Koestler, pervenne alla tesi di una “schizofisiologia incorporata nella nostra specie”. Alla base di quella tesi vi era la convinzione, supportata dalle conoscenze neuroanatomiche del periodo, che neocorteccia e sistema limbico fossero fisiologicamente non comunicanti e impedissero pertanto all’esperienza emozionale di evolvere in sintonia e in sincronia con quella conoscitiva. Le emozioni svolgono un ruolo di spicco nel processo d’evoluzione filogenetica, che si è imposto, probabilmente, anche per la loro capacità di mettere in gioco ragioni e strumenti di difesa della specie più sottili e raffinati di quelli consentiti dall’istinto, che non si limitano a proteggere la specie in quanto tale, disinteressandosi della sorte dei singoli individui. Plasticità cerebrale e libertà sono condizioni reciprocamente implicate dentro un percorso di crescita e di formazione che rende possibile l’autoregolazione. È necessario che l’ambiente educante divenga “plastico” nel senso di assecondare il cervello in un percorso di esplorazione che gli impedisca di chiudersi entro confini troppo stretti e precocemente tracciati.
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Copyright (c) 2018 Maurizio Fabbri

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