“I tramp a perpetual journey”. Circolarità della fuga in ‘Nomadland’
Abstract
L’articolo intende riflettere sulle rielaborazioni dei motivi dell’esodo, della fuga e del nomadismo a partire da Nomadland (2020) di Chloé Zhao, pellicola vincitrice del premio Oscar 2021 basata sull’omonimo reportage di Jessica Bruder sui vandwellers: comunità di persone, spesso ultrasessantenni, che in seguito alla disastrosa crisi finanziaria del 2008 hanno scelto di dimorare in camper e furgoni, girando gli Stati Uniti in cerca di modesti lavori stagionali. Se il genere del road movie, peculiarmente americano, ha risemantizzato l’archetipo del viaggio iniziatico, traslandolo a bordo di auto o motociclette immerse nel variegato paesaggio dell’entroterra statunitense, Nomadland prova a smantellare sia i nuclei del road movie (l’escapismo e la ribellione giovanile), sia i miti fondanti della civiltà statunitense (la ricerca della felicità, il sogno americano, il destino manifesto), già messi a dura prova dalle narrazioni di John Steinbeck, che in Furore (The Grapes of Wrath, 1939) – i cui echi risuonano vividi in Nomadland – rappresentava il tragico esodo per la sopravvivenza di una famiglia americana durante la Grande depressione degli anni Trenta. Il saggio propone dunque di illuminare i modi in cui, nel film, la fuga da un sistema sociale in rovina si tramuta in un’erranza perpetua, fisica e spirituale, volta non solo a riscoprire una simbiosi col paesaggio naturale, ma anche a tessere legami solidali di condivisione con una comunità umana per la quale la strada, così come la fuga, non possono più essere lineari, tese verso un orizzonte di liberazione, bensì circolari e, in ultima analisi, prive di una prospettiva teleologica.
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