Giorgio Manganelli tra “opera aperta” e “opera chiusa”
Abstract
Nel marzo del 1969, all’indomani di un’entusiastica lettura in manoscritto di Nuovo commento, Italo Calvino indirizza a Giorgio Manganelli una lettera che rappresenta non solo la prima, ma anche – per molti aspetti – una già caratterizzante interpretazione dell’opera. Calvino scopre subito le sue carte: assecondando, dice di se stesso, “quel fanatico dell’‘opera chiusa’ e degli schemi lineari che alberga in me”, dichiara di essere andato alla ricerca nel testo di uno o più “sistemi” ordinativi interni. Pur avendo trovato varie “struttur[e] […] pertinent[i]”, e quindi per lui di particolare soddisfazione, Calvino conclude “col consiglio di […] completare l’incastratura di tutto nel tutto per rendere il tutto compatto come un uovo”. Un modo, in omaggiante stile manganelliano, per ribadire la propria ferrea istanza di chiusura. Nuovo commento però – come del resto quasi tutti i testi manganelliani – è tutt’altro che un’“opera chiusa”. Si propone, anzi, per programma come un’“opera aperta”: dove – seguendo la fortunata formula di Umberto Eco (enunciata solo pochi anni prima e implicita, per contrasto, nello stesso discorso di Calvino) – l’apertura non è tanto (o soltanto) nell’atto di fruizione, ma presupposta nello stesso atto narrativo, in una scrittura cioè da un lato (potenzialmente) infinita, dall’altro “scostata e dall’inizio e dalla fine”, sviluppata in uno “spazio mediano” (con tutta la problematicità che hanno in Manganelli, occorre ricordarlo, le categorie di “centro” e “periferia”). Del resto, pur interrompendosi, le sue opere non ‘finiscono’ propriamente; un aspetto, questo, che è evidente pure dal trattamento che proprio l’apocalisse – il modello-archetipo narrativo-cognitivo scelto da Kermode per indagare il Sense of an Ending – ha nei testi manganelliani.
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