Teoria e prassi dei “vuoti urbani”

  • Anna Maria Frallicciardi Università degli Studi Federico II di Napoli
  • Marcello D'Anna
Parole chiave: Vuoti urbani, dismissione industriale, pianificazione urbana

Abstract

Fra il 1970 e il 1990 le città industriali di molti Paesi avanzati hanno subito una progressiva degradazione del tessuto urbano, conseguenza in primo luogo della crisi industriale. Il ridimensionamento delle attività produttive ha provocato un’accelerazione dei processi di dismissione, cui ha contribuito anche la rapidità dei cambiamenti intervenuti nell’organizzazione spaziale delle attività terziarie e delle infrastrutture. Le “aree dismesse” hanno cominciato, quindi, a presentarsi come problema di primo piano, causa di degrado e di dequalificazione della città e dell’ambiente e spesso anche di rischio per la salute e per gli ecosistemi. Tuttavia, è stato ben presto evidente che i “vuoti”, accanto all’aspetto problematico, possiedono grandi potenzialità, poiché si presentano come inattese occasioni per ripensare la città e lo sviluppo locale sulla base di nuovi obiettivi, in particolare obiettivi di sostenibilità ambientale.
Nel corso degli anni novanta, in cui si è verificato un rallentamento dei processi di dismissione, l’interesse per i vuoti si è affievolito anche tra gli studiosi e solo al termine del decennio, sotto la spinta dell’incalzante necessità di aumentare la competitività e la qualità dei centri urbani, si è riacceso l’interesse per i vuoti.
Di recente il termine “vuoto” si è arricchito di nuovi significati comprendendo diverse tipologie di aree abbandonate e/o marginali di spazi aperti, una sorta di “maggese sociale” in attesa di essere recuperato.

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Pubblicato
2015-07-07