Analitici e continentali: un progetto fallito?
Abstract
La tesi che ho cercato di sviluppare in Analitici e continentali (1997) e in molti scritti successivi, è che la diversificazione delle due tradizioni A (analitica) e C (continentale) è la ricaduta pratica e istituzionale dell’assenza di una chiara consapevolezza collettiva circa che cosa sia la filosofia, quali siano i suoi compiti e metodi, e in che cosa si differenzi da altre scienze o attività intellettuali. Tale assenza potrebbe non essere di per sé problematica, se non fosse che la filosofia, almeno a partire dall’idealismo tedesco, è diventata una disciplina accademica, e attraverso un processo iniziato nel secondo Ottocento e giunto a compimento all’incirca nella seconda metà del secolo successivo, ha acquisito l’assetto istituzionale di una collezione di discipline specializzate, che dovrebbero operare in modo simile a tutte le altre scienze e discipline.
Quando una forma di sapere si struttura come una scienza senza avere (o senza voler avere) una chiara e uniforme coscienza di sé, si generano due conseguenze. La prima è che, come osservava già Aristotele, si diffonde e trionfa la “falsa scienza”, ovvero la “simulazione di sapienza” prolifica in modo incontrollato. Si produce allora una grande quantità di filosofia nominale, che tende sopraffare e annientare gli scarsi residui di filosofia sostanziale. La seconda è che si determinano controversie intellettuali, culturali e metodologiche, che a lungo andare diventano facilmente manipolabili, e vengono utilizzate per le più basse e ignobili manovre di potere.
È quanto è accaduto alla distinzione A-C. Il testo ricostruisce brevemente questa vicenda e mostra come la storia recente della diversificazione abbia portato a una specie di disastro intellettuale e morale, che interessa tutta la filosofia, e ha forme particolarmente problematiche nella filosofia A (o presunta tale).
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